Editoriale

Il Congresso Usa, rinunciando alla prerogativa suprema di una democrazia, la decisione tra guerra e pace, ha nominato Bush dittatore di guerra, libero di decidere una guerra unilaterale, anche contro le decisioni dell’Onu. Ciò che Bush intende fare è un delitto internazionale, contro il più prezioso ed evoluto diritto delle genti (jus gentium) che l’umanità si sia mai data, cioè la Carta delle Nazioni Unite, il diritto positivo internazionale di pace. Ed è un’azione violenta e arbitraria d’imperio che pretende punire il governo e il popolo dell’Iraq contro le regole umane e razionali di ogni giudizio giusto, contro il parere della comunità dei popoli, contro una larga e qualificata opinione del suo stesso paese.

In Italia l’Ulivo si divide sull’invio degli alpini nella guerra in Afghanistan. Quella guerra, a cui l’Ulivo stesso per debolezza acconsentì, non è mai stata lotta al terrorismo, ma errore tragico e stolto, che alimenta il terrorismo invece di toglierne cause e pretesti. Il governo Usa ha colto l’occasione dell’11 settembre per scatenare una guerra di conquista del centro dell’Asia, in funzione di dominio strategico ed energetico. Non è male questa divisione nell’Ulivo, che può essere una chiarificazione. Infatti, il criterio principe della politica, sia di governo sia di opposizione, e in particolare il criterio principe della sinistra autentica, è la pace, cioè la soluzione dei conflitti senza la violenza omicida delle armi.

Alcuni commentatori chiamano cultura di governo quella (Margherita) che approva la spedizione, e cultura ostinata di opposizione (Ds, Verdi, Comunisti dei due partiti), quella che non la vuole. Ma saper governare consiste proprio nel saper sostituire la guerra con la politica nonviolenta. La discussione supera il caso del momento e, sebbene le scelte politiche abbiano sempre qualcosa di strumentale, tocca la teoria della politica, cioè i criteri essenziali che la guidano. 

Fassino toglie valore al voto contrario dato dai Ds sugli alpini in Afghanistan, col prendere le distanze dal «pacifismo alla Gino Strada», e con l’affermare che la politica implica anche l’uso della forza. Egli qui chiama forza (col tipico eufemismo militare) la violenza armata. Le due cose sono diversissime. Forza è anche, e soprattutto, la nonviolenza attiva. La violenza è indice di debolezza e paura, non è forza umana.

Fassino qui ignora che l’art. 11 della Costituzione obbliga lui, come Berlusconi, come tutti noi. L’Italia «ripudia la guerra... come mezzo di risoluzione delle controversie» (e tale è la guerra cosiddetta enduring freedom); l’Italia è impegnata all’ordinamento internazionale di pace, cioè la Carta dell’Onu (art. 51), la quale, come limite ulteriore alla legittimità della stessa guerra di difesa, obbliga a deferire «immediatamente» la questione al Consiglio di Sicurezza, unico legittimato a prendere le misure necessarie (art. 47), che devono essere comunque di polizia e mai di guerra, perché l’Onu è istituita anzitutto per abolire la guerra (prime parole del Proemio della Carta), e perché la polizia legale e corretta diminuisce la violenza mentre la guerra accresce la violenza.

Fassino parla di etica della responsabilità, e non solo delle convinzioni. Ma è responsabilità farsi carico delle conseguenze: quelle della guerra sono sempre, nel breve e nel lungo tempo, le peggiori possibili, come dimostra l’intera storia umana, letta con occhi umani. La violenza omicida non porta davvero, negli effetti profondi, né libertà né giustizia. La guerra è totalmente eterogenea rispetto a questi valori e premia soltanto il più forte e più crudele. «Per quanto giusta sia la causa del vinto, il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile» (Simone Weil, Quaderni I, p. 232). «...la Giustizia, questa fuggitiva dal campo dei vincitori» (Quaderni III, p. 158). 

Fa orrore, in questi giorni, leggere commenti che portano rispetto a chi vuole la guerra per la guerra, solo perché è potente. Fa orrore sentire intellettuali che chiamano queste guerre d’impero “realismo”  e “pragmatismo” e dicono che l’Italia deve partecipare al delitto per contare sul piano internazionale. Così fecero, tra gli altri, Cavour con la Crimea e Mussolini nel 1940. Non sono esempi utili per il futuro umano. Il realismo consiste nel capire questo.

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