CINEMA
Fenomenologia del perdono

Il cinema è guardone (come la letteratura, del resto). Lo aveva già detto Hitchcock, scandalizzando qualcuno. Ma Il figlio, l’ultimo film dei fratelli Dardenne (La promesse, Rosetta) è ben più “morale” del grande spettacolo del dolore di questi giorni. ben Diversamente dall’intervistatore televisivo che al padre/madre/figlio dell’assassinato chiede: «Ma lei è pronto a perdonare?», esplora il tema del perdono in modo delicato, fenomenologico.

Olivier, un uomo schivo, falegname, insegna il suo mestiere a ragazzi “perduti”, sbandati, che attraverso il lavoro manuale (come in Magdalene!) riacquistano una loro dignità. Un giorno arriva Francis, 16 anni. Cinque anni prima aveva ucciso il figlioletto di Olivier durante un furto dell’autoradio nell’auto. Ma questo noi lo capiamo dopo, lentamente, molto lentamente. La macchina da presa sta alla nuca di Olivier, lo segue nelle sue faccende quotidiane. Lo bracca. Lo vediamo sempre da dietro. «Ci sembrava indiscreto, osceno, mostrare in primo piano il conflitto drammatico di Olivier, il crescere dell’angoscia», dicono i registi. E Olivier pedina Francis. Non sappiamo ancora per quale motivo. Sembra morboso. Solo dopo tre quarti d’ora dall’inizio li vediamo quasi di fronte insieme, nella stessa inquadratura: stanno mangiando un panino per strada appoggiati alla macchina. Ma intanto mangiano insieme (e ciascuno paga il suo). Quando la moglie – da cui Olivier evidentemente si è separato – intuisce che questo ragazzo è l’assassino del loro figlio sviene, non può sopportare l’idea. Lei ha scelto di uscire dall’angoscia aspettando un altro figlio, da un altro uomo.

E Olivier, invece? Può resistere da solo, senza particolari appigli religiosi, alla voglia di vendicarsi? E perché dovrebbe? Perché non uccidere?, si domandava Barbara Spinelli tempo fa sulla «Stampa» a proposito di Erika e Omar. In realtà lo capiamo subito: Olivier non può uccidere. Prendersi cura di Francis (ma con lui anche di tutti gli altri ragazzi: le telefonate in segreteria rivelano un rapporto “confidenziale” che va al di là di un semplice lavoro) sarà il suo modo, ambiguo, improbabile, ma possibile, di elaborare quel lutto. Anche nella Stanza del figlio di Moretti succedeva qualcosa di simile (ma nel confronto questo ci pare un film anche cinematograficamente superiore): la coppia che aveva perso il figlio recuperava una minima prospettiva di senso accompagnando con lo sguardo la fidanzatina del figlio con un nuovo ragazzo che vanno verso la Francia.

Olivier convince Francis a accompagnarlo di domenica a caricare legna: lui la domenica non ha niente da fare, il patrigno lo rifiuta, e il padre non sa neanche dov’è. Un padre senza figlio, e un figlio senza padre. Mentre si fermano a mangiare (di nuovo la compagnia!) Francis chiede ingenuamente a Olivier di fare il suo «tutore». È qui che il tema della paternità si lega a quello del perdono. Ma Olivier mette Francis alle strette, lo martella di domande, gli rivela di essere lui il padre del bambino ucciso. Francis scappa. Olivier lo ricorre, gli salta addosso. Potrebbe ucciderlo adesso? Forse, anche se la sua scelta ormai l’ha fatta. Alla fine, Francis torna. Non dice una parola. Silenzio. Solo prende un’asse per caricarla sul carretto. Le altre mani, dall’altra parte dell’asse, sono quelle di Olivier.

Il film non concede nulla allo spettacolo. Anzi, chiede allo spettatore un arduo esercizio, come dicono i registi in un’intervista: «immaginazione morale, cioè la capacità di calarsi nei panni di un altro. E l’altro è così stupefacente da condurre lo spettatore altrove». Questo è cinema.

Antonello Ronca


 
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