UN CONVEGNO A TORINO |
Itinerari di preti al lavoro |
«L’episcopato francese, con l’approvazione della Santa Sede, si propone di autorizzare un piccolo numero di preti al lavoro a tempo pieno nelle fabbriche e sui cantieri, dopo una preparazione appropriata ... È una missione essenzialmente sacerdotale quella affidata ai preti al lavoro: come tutti i preti, essi sono consacrati all’annuncio del Vangelo... Il prete al lavoro potrà iscriversi al sindacato, ma sapendo che gli impegni temporali spettano ai militanti operai, egli si asterrà dal prendere delle responsabilità nell’azione sindacale e politica, a qualsiasi livello». Questo il breve comunicato, datato 23 ottobre 1965, col quale l’episcopato francese informava circa l’autorizzazione data dalla Santa Sede per la ripresa dell’esperienza dei preti operai, o meglio dei preti al lavoro, come si precisava nel documento. A quasi quarant’anni da quella data, cosa rimane dei preti operai, come, da subito, si sono definiti i preti che deposto l’abito talare hanno indossato la tuta e i panni del manovale? Il 30 settembre la domanda è stata proposta più volte ai circa cento partecipanti, una ventina dei quali preti operai, che si sono trovati, nella Sala Conferenze dell’Archivio storico della città di Torino, per un seminario sul tema «Preti Operai. Itinerari di sacerdoti al lavoro», organizzato dalla Fondazione Vera Nocentini, dal Centro Studi Bruno Longo, dalla Cisl di Torino, con la collaborazione dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro di Torino. Significativa la presenza di due vescovi emeriti: Luigi Bettazzi e Pietro Giachetti, e la lettera di saluto di mons. Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, nella quale ricordava come la sua esperienza come chierico operaio, per due anni a Spinea, fosse stata fondamentale per la formazione di prete e di vescovo ora. Missione e inculturazione. Concludendo i saluti, non formali, Gianni Fornero – ex prete operaio e militante della Fiom Cgil «scelta per essere fra i lontani», ora responsabile dell’Ufficio della Pastorale sociale e del lavoro di Torino – ha posto una domanda: quale l’apporto originale dei preti operai? Il contributo più originale, ha affermato Fornero, è stato dato all’interno della chiesa dal delinearsi di un nuovo modello di sacerdozio ma, soprattutto, dall’aver posto in modo nuovo una terna di concetti: evangelizzazione, missione, inculturazione. È in particolare sul concetto di missione che la storia dei preti operai può portare un contributo di qualità, per una chiesa che torna a parla di missione, ma dove convivono e non si chiariscono modelli diversi a volte contrastanti fra di loro: dal fondamentalismo alla nostalgia per la conquista, alla dissoluzione dell’identità. Il primo intervento, del sociologo Bruno Manghi, dopo aver “contestato” alcuni modelli interpretativi e alcune idee “mito”, collegate alla narrazione della vicenda dei preti operai, ha suggerito di partire dalla soggettività dei singoli preti operai. Partire, quindi, dalla vita dei singoli per riformulare tipologie più corrispondenti alla realtà. La varietà, le vicende personali, sono di fatto l’aspetto più interessante e più vivo della loro storia. Manghi ha concluso sostenendo che guardando, oggi, al fenomeno collettivo, questa intensa esperienza è vista, più ci si allontana, inserita in un solco comune ad altre esperienze: è «il solco di revisione continua dell’essere sacerdoti nella modernità». L’importanza della soggettività è stata, di fatto, confermata dal secondo intervento, quello di Giuseppe Stroppiglia, ex prete operaio e sindacalista a Bologna, oggi responsabile della Associazione Macondo, da lui fondata nel 1988. Stroppiglia ripercorre la sua esperienza, il suo percorso, quello di «un viandante che cammina non avendo un piano, senza grandi convinzioni teoriche, ma dipendente dai fatti e dagli incontri fatti». Individua nella gratuità la caratteristica principale dell’essere prete operaio. Stimolante l’intervento di Ermis Segatti, della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, che ha osservato l’esperienza dei preti operai come un’esperienza di inculturazione. La loro fu un’inculturazione in una caratteristica tipica della nostra civiltà occidentale, «quella in cui il lavoro ha un ruolo rilevantissimo». Un’inculturazione-sfida in quel mondo operaio che aveva pensato se stesso escludendo la fede, anzi postulando una premessa metodologica e cioè che quel mondo sarebbe stato il luogo naturale della sparizione della fede. Un mondo pensato come culturalmente inculturato con l’assenza di Dio. La storia dei preti operai presenta dunque i rischi di ogni inculturazione: gli eccessi di identificazione, la svendita dell’identità originaria, una sorta di rischi per abuso di fede come il “nazionalismo” della classe operaia, l’accettazione mistica di questa realtà e poi il ritorno acritico sullo specifico religioso ed ecclesiale. La chiesa ebbe nei confronti di tale esperienza un occhio critico, difensivo e recriminatorio, fu raro lo sguardo sereno e la valorizzazione dell’eroismo di questa opera di inculturazione. Non fu «capace di legittimare l’operazione stessa, fatto che avrebbe potuto dare una più serena accoglienza all’interno del mondo ecclesiale, invece di creare delle ghettizzazioni pericolose». Il cambiamento del mondo, del lavoro in particolare, non porta come conseguenza la sparizione di tale scelta di inculturazione, impone anzi la sua rigenerazione. Ultima relazione del mattino quella di Gianpaolo Fissore, dell’Irre Piemonte, incentrata sulla ricostruzione del rapporto chiesa-Fiat negli anni ’50 e metà anni ’60 del Novecento, gli anni del «legalismo aziendale»; ha ripercorso le vicende del Sida e il ruolo dei cappellani del lavoro, «uomini della carità non della verità». Prete, chiesa e mondo. Alcuni interventi dei presenti – fra cui la testimonianza di mons. Giochetti e di mons. Bettazzi e di alcuni preti operai – hanno chiuso la mattinata e aperto i lavori del pomeriggio, introdotti da Maurilio Guasco, dell’Università del Piemonte Orientale. La mia relazione riguardava la storia dei preti operai italiani. Dopo aver evidenziato nella presenza di una “chiesa forte”, nel particolare momento storico e nella profonda differenziazione regionale i fattori che hanno caratterizzato la vicenda italiana, ho brevemente ripercorso le “parole”, le date, gli avvenimenti i numeri che ne hanno definito il percorso. Ho proposto di prendere dapprima in esame il diverso modo dei preti operai di porsi di fronte al trinomio prete-chiesa-mondo. Si possono evidenziare tre tipologie diverse: una prima che possiamo definire «spirituale», rappresentata, in particolare, da Sirio Politi e Luisito Bianchi; una seconda, «ecclesiale», impersonata da Carlo Carlevaris e, generalizzando, dal gruppo dei preti operai piemontesi; e una terza, «politica», rappresentata in particolare dal collettivo dei preti operai lombardi, veneti e dal gruppo romano. Penso sia possibile tracciare, da questo inventario, due diversi modelli di prete: quello «ecclesiologico-profetico-rinnovatore», che di fatto sarà il più presente nei diversi cammini dei preti operai. Un secondo, quello «politico-contestativo-rinnovatore», se pur minoritario, avrà un peso rilevante nel cammino del movimento. Questa secondo modello sarà portato, negli anni ’90, da alcuni preti operai veneti e lombardi sino all’estreme conseguenze, con la teorizzazione dell’insignificanza del sacerdozio. In secondo luogo, ho preso in esame quella che possiamo definire la parabola discendente della vicenda dei preti operai, evidenziando le modalità di porsi di fronte all’esperienza. Ne individuo due: chi entrato in “condizione operaia” ha vissuto e vive ciò come una scelta totalizzante, una scelta di vita non un’esperienza. La condizione operaia segna, quindi, non solo la vita attiva, il “tempo del lavoro”, ma l’intero “tempo del vivere”, l’intero arco della vita. Chi, invece, dopo aver concluso l’esperienza di fabbrica, riprende la propria vita da prete “immergendosi” in un’altra realtà: la parrocchia, l’attività caritativa... Alla conclusione dell’intervento ho brevemente presentato il nascente Archivio dei preti operai italiani, nei locali del Centro Studi Bruno Longo. Essere per, essere con, essere come. La tavola rotonda conclusiva, aperta da Guasco, ha visto succedersi le testimonianze di tre preti operai. Jean Olhagary, prêtre-ouvrier basco, ha ripercorso il suo itinerario, facendo rivivere la sua esperienza di cappellano al fronte nel 1945, il suo ingresso nella Mission de Paris, l’immersione nella condizione operaia, la militanza nella Cgt, i drammatici momenti del marzo 1954, quando l’esperienza dei preti operai venne chiusa e la sua decisione di essere fra gli insoumis, cioè fra quei preti che decisero, accettando la totale emarginazione, di non abbandonare la fabbrica. Gino Chiesa, prete operaio di Alba ancora al lavoro: all’inizio degli anni Settanta «da uomo pensante e libero presi la faticosa decisione di “saltare il muro” come diceva il cardinale Suhard... Scelsi di vivere con la gente di confine, con gli operai marxisti. Desideravo essere non solo per, ma con loro». Ha concluso la sua testimonianza rivendicando l’attualità della scelta e dell’esperienza, nonostante l’assottigliarsi del numero dei preti operai: «ho letto in uno dei nostri documenti che siamo ancora innamorati dentro, io condivido questa affermazione e aggiungo anche che restiamo instancabilmente testardi nel cercare». Ultima testimonianza quella di Carlo Carlevaris, una delle figure storiche dei preti operai italiani; ha ripercorso la sua vita come cappellano del lavoro, la venuta a Torino di padre Michele Pellegrino, la scelta operaia, la scelta dei preti operai di «essere per, essere con, essere come loro». Ha sottolineato le sue scelte di essere e vivere come la gente, di condividere le lotte sindacali come delegato, di testimoniare il messaggio evangelico, di appoggiare la Gioc e il Cmo, di avviare il Coordinamento Nazionale e internazionale dei preti operai, di tentare un rapporto informale o organico con i vescovi. Quelle di prete operaio in pensionamento, quindi il sostegno culturale ai lavoratori con il Centro studi Bruno Longo, la cooperazione con Cooperative agricole in Brasile e Africa, la presenza elettiva nel Consiglio pastorale diocesano. Marga Margotti, dell’Università di Torino, autrice di un recente saggio sulla spiritualità dei preti operai, pubblicato dalla Studium di Roma, ha concluso il seminario sottolineando, come questo sia stato «un significativo momento per unire memoria e ricostruzione storica», e, inoltre, come sia emerso «un legame continuo fra passato e presente, una storia che ha delle radici: è proprio sulla ricerca di queste radici che questa giornata ha detto qualcosa». Una storia aperta al futuro che suggerisce alla chiesa un modo “diverso” di vivere il cristianesimo. Antonello Famà |