LE DOMANDE DI SEMPRE |
Solo il Cristo storico è il risorto |
Come risulta anche dal dibattito su il foglio, sono più che mai attuali e aperte le domande sul senso della nostra vita di credenti: «Che significato ha la morte e la resurrezione di Gesù? Chi è il Dio annunciatoci da Gesù? Che cosa propone, per la nostra vita e per la nostra morte, il messaggio evangelico?». Sono le domande di sempre, alle quali hanno tentato di rispondere, nel corso di duemila anni, schiere interminabili di persone. Nessuno può pretendere di avere la risposta. Tuttavia penso che ognuno debba sforzarsi di esprimere, il meno confusamente possibile, quello che la sua esperienza di vita gli abbia suggerito. Gli ultimi sono i primi. Alcuni esegeti propongono la seguente interpretazione di alcune parti del Nuovo Testamento: la Salvezza, la Vita Eterna, il Regno, non sono da attendere alla fine dei tempi, nell’ora della nostra morte, in un aldilà. Sono già da oggi presenti, qui ed ora. Secondo Schnackemburg (Il Vangelo di Giovanni, parte II, Paideia 1981, pp. 190, 573, 578), «Giovanni non è stato toccato dal movimento regressivo iniziato dopo Paolo nel cristianesimo ellenistico che ha ricondotto a intendere la “vita eterna” in un senso futuro (escatologico e postmortale). Il suo concetto di vita ha tutto il suo centro nel presente». Secondo Käsemann, Giovanni annuncia «al credente la vita eterna nel presente... e aggiunge la dichiarazione radicale e inaudita che il giudizio universale, tradizionalmente atteso come ultimo giorno del mondo, ha già avuto luogo con la venuta di Gesù e che, come sostenevano gli entusiasti di Corinto e gli eretici di 2 Tim 2,18, la resurrezione generale è già reale e presente (L’enigma del Quarto Vangelo, Claudiana 1977, pp. 26-28). Per Dupont «i poveri sono beati perché ora è arrivato il tempo della loro consolazione. Il Regno si è fatto talmente vicino che si può parlare di un “ora” o di un “oggi”... Nel pensiero di Gesù, “ora” si oppone alla situazione precedente: finora avete sofferto, ma il tempo della salvezza è arrivato “ora”... Le beatitudini rivolte ai poveri sono una formula di felicitazione, i “guai” ai ricchi sono un dichiararli infelici e degni di compassione... Il tempo di Gesù era il tempo di una possibilità meravigliosa offerta agli uomini che ascoltavano la Buona Novella: le promesse di felicità e di salvezza vengono adempiute, ora, oggi» (Le Beatitudini, III, Paoline 1992, pp. 41, 161, 226, 1056). Il Regno oggi, nel 2002? La Vita Eterna oggi? Se ne può forse fare un’esperienza individuale. «L’eternità si rende presente nell’istante pienamente vissuto. Quando mi dono e mi espongo totalmente faccio anche esperienza di un’eternità presente» (Moltmann, L’avvento di Dio, Queriniana 1998, p. 320)». «Nel tuo presente è sempre contenuto il senso della storia, e tu non puoi guardarlo come uno spettatore, ma solo nelle tue decisioni responsabili. In ogni momento dorme la possibilità di essere il momento escatologico. Tu devi risvegliarlo» (Bultmann, Storia ed escatologia, Bompiani 1962, p. 176). Ma è possibile immaginare un Regno presente, anche a livello collettivo, “politico”? La «possibilità meravigliosa» di cui parla Dupont è una folle utopia. E la beatitudine annunciata ai poveri è il solito oppio atto a renderli rassegnati e sottomessi? O non è forse il mezzo più sovversivo per distruggere in modo nonviolento la radice di ogni privilegio? Considerare i potenti come personaggi tragicomici degni di pietà non è forse la base per un’autentica rivoluzione? E nuovi dubbi si affacciano: una tale visione non oscilla tra il sogno utopico, il misticismo individuale e un cristianesimo ridotto a un messaggio etico, o politico, o terapeutico? La discriminante consiste nel vedere il tutto come opera unicamente di Dio. Noi, qualsiasi cosa facciamo, possiamo solo “vantarci” delle nostre debolezze, poiché siamo «servi inutili» (2 Cor 12,9; Lc 17,10). La storia delle “nostre rivoluzioni” dovrebbe insegnarci qualcosa. Solo Dio è il “rivoluzionario” che rovescia i potenti (Lc 1,52); solo Dio è misericordioso e nonviolento (Lc 6, 35-36); solo Dio è radicalmente povero (Fil 2,6-8); solo Dio rende possibile la liberazione dalla schiavitù del denaro (Mc 10,27). Il Cristo della religione è morto. Ognuno di noi da bambino ha dovuto imparare le seguenti “verità”: Dio è un essere gigantesco e potentissimo; il suo mestiere è far miracoli; il miracolo più spettacolare è il Cristo che esce trionfante dal sepolcro; questa terra è una valle di lacrime; ma se staremo buoni, dopo la morte ci aspetta il paradiso, la felicità eterna (dopo un po’ di anticamera); se no, l’inferno. L’iconografia tradizionale è zeppa di immagini illustranti tali “verità” in modo più o meno efficace e artisticamente valido. Questo sistema religioso si è formato nel corso dei secoli e trova la sua origine già presso alcuni autori neotestamentari. Si nota una tendenza, sempre più accentuata, a nascondere quello che forse è l’autentico messaggio di Gesù. «Adesso come allora, sono in gioco due concezioni opposte di Dio e dell’uomo. Noi, come Adamo, vogliamo essere come quel dio sul quale proiettiamo il nostro egoismo, con la brama di avere, di potere e di apparire. Vorremmo un dio a immagine e somiglianza della nostra carne, insufficienza in cerca di autosufficienza; siamo invece salvati se la nostra carne diventa immagine e somiglianza della sua, che è dono di sé fino alla morte» (Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni I, Edb 2002, p. 161). Già in Luca si opera uno slittamento rispetto a quella che Dupont individua come la prospettiva originale delle beatitudini. «L’ora di Gesù è un già-ora, quello della presenza attuale della salvezza; l’“ora” di Luca è un ora-ancora, quello della prova che si prolunga, perché il tempo della salvezza non è ancora giunto». Il tempo della salvezza viene collocato in un futuro indefinito e trasferito «sul piano individuale, rendendo la fede più accessibile alla mentalità individualistica del mondo ellenista» (Dupont, op. cit., pp. 161, 227). Per Paolo (I Cor 12, 8-10) il potere dei miracoli è un dono tra i tanti, come la scienza, la sapienza, la profezia, la varietà delle lingue ecc. Invece, nella finale non marciana del Vangelo di Marco, i miracoli «accompagneranno quelli che credono». La chiesa primitiva ha fatto suo l’entusiasmo taumaturgico proprio del suo tempo. Gli ex-voto del tempio di Asclepio di Epidauro riportano 80 racconti di miracolo; la Vita di Apollonio, di Filostrato, riporta una ventina di miracoli, tra cui la resurrezione di una giovane sposa che è, fin nei dettagli, simile alla resurrezione del figlio della vedova di Naim (Léon-Dufour, I miracoli di Gesù, Queriniana 1990, pp. 79-91; Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia 1976, p. 107). Quando Giovanni Battista manda due discepoli da Gesù (Lc 7,18-23), ciò che può scandalizzare non è l’elenco dei prodigi ma il dover vedere «colui che viene» come colui che porta la lieta novella ai poveri e senza che si riprenda l’annuncio della vendetta di Dio di Isaia 61,2 e 35,4 (Schürmann, Il Vangelo di Luca, Paideia 1983, pp. 661-62). Anche ora, nel 2002, siamo immersi in un mondo assetato di miracoli di ogni tipo e aneliamo a costruirci divinità che producano miracoli. Lo scandalo più insopportabile è la Buona Novella ai poveri. E quello che più ci ripugna è la non discesa di Dio dalla croce. Ma non è il figlio di Giuseppe? Una visione “miracolistica” di Dio, di Gesù Cristo, della Resurrezione è perciò «umana, troppo umana», banale, mondana, degna di un dozzinale film fantasy. E occorre anche correggere alcuni punti di vista: la nostra vita non consiste solo in prove individuali (sperando nei miracoli) in attesa dell’oltretomba. Ma è anche vero che le prove sono una realtà e, ahimé, anche la morte. Il messaggio evangelico non ha niente da suggerirci? Si possono proporre alcuni spunti di riflessione. 1) «Dio è totalmente altro, altro anche dal nostro concetto di altro: talmente altro da essere come noi» (Fausti, op. cit., p. 23). 2) «Noi preferiamo sempre – forse perché non accettiamo la nostra umanità concreta – un essere divino che sia un po’ vaporoso e inconsistente. Ma il mio io è unico e non può annullarsi nel generico. E Dio stesso è personale e prende corpo nella singolarità di una carne. Questo è per lui l’unico modo per essere veramente con noi e per noi l’unica possibilità di essere con lui» (ibidem, p. 186). 3) In Giovanni, nel Cristo «innalzato», Venerdì Santo, Pasqua, Ascensione, Pentecoste e Parusia tendono a identificarsi. Il «nascondimento» di Gesù, già presente nel “segreto messianico” di Marco, trova la massima espressione nella Croce in cui il nascosto è il rivelato (Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana 1992, pp. 379-89). 4) Se non sapremo deporre la nostra sapienza e farci piccoli e aperti alla rivelazione del Padre Dario Oitana |