FIAT
Una crisi annunciata

È un fatto che l’argomento Fiat, oggi come nel passato, solleva dibattiti passionali. La distanza fisica e temporale (ho lasciato Torino e l’azienda poco più di dieci anni fa) mi offrono il privilegio di essere meno coinvolto. La Fiat come l’abbiamo conosciuta – nel bel libro di Spriano, nelle manifestazioni di piazza, nelle sue auto che abbiamo tutti guidato, e nelle diverse altre esperienze più o meno dirette di contatto – già non esiste più. 

Tra alcuni mesi resterà il marchio sulla carrozzeria di qualche modello, integrato nella gamma mondiale di General Motors, e un conglomerato di partecipazioni azionarie, che più niente avranno a vedere con i progetti del senatore Giovanni Agnelli. Sebbene questa previsione non abbia nulla di straordinario nell’attuale economia della globalizzazione, quando si contano i posti di lavoro da tagliare lo sgomento è generale. Ma l’alternativa è la bancarotta. Nessuna industria automobilistica può sopravvivere con meno del 5% di utile netto sul capitale investito; le mancano i soldi per costruire il futuro. E la Fiat Auto da diversi anni non fa più utili.

La crisi Fiat giunge a questo epilogo per ragioni squisitamente interne, complesse come lo sono i molti fattori che fanno il successo o l’insuccesso nel difficile mondo dell’auto. Col senno di poi (e nella comoda posizione di chi se ne è andato) è facile dire che da molto tempo si poteva intuire la fine. Con questa cessione si chiude l’unica esperienza di grande imprenditoria privata che abbia conosciuto l’Italia, dalla rivoluzione industriale in avanti.

So che molti obietteranno sui frequenti pompaggi di denaro pubblico a vario titolo erogati: io non saprei citare molte altre aziende di questa dimensione che non ne abbiano beneficiato in qualsivoglia altro paese europeo. So che molti ricorderanno le pratiche ingiuste e discriminatorie (io stesso sono stato oggetto di schedature) nelle relazioni sociali: per questo difendiamo i sindacati in ogni democrazia occidentale.

Allo sconcerto immediato, si aggiunge per me un’altra preoccupazione. Negli anni bui del craxismo, Fiat Auto fece diga alla pratica dell’affarismo che mescolava interessi privati e sottobosco politico (l’episodio Impresit fu marginale, in quanto si trattava di una società in compartecipazione). L’azienda era, per chi ci lavorava direttamente o indirettamente, la prova che si poteva avere successo senza piegarsi alla logica craxiana. Negli anni ancora più bui del regime berlusconiano, chi assumerà questo ruolo?

Stefano Casadio


 
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