Editoriale

Chi riconosce che la crisi della Fiat è una «crisi annunciata» non fa mostra di particolare sapere e neppure di grande preveggenza. Semplicemente confessa una singolare mancanza dell’uno e dell’altra, oltre che la comune deplorevole pigrizia del mondo imprenditoriale, politico e sindacale nell’affrontare tempestivamente i problemi più gravi dell’economia e della società.

Più di un segno aveva avvertito che la produzione di automobili non poteva più reggere, in Italia e in Europa, il ritmo degli anni dell’espansione economica e della motorizzazione di massa. Più di una voce segnalava che i mercati dei paesi del secondo e del terzo mondo non avrebbero avuto la liquidità e la mobilità necessaria per sostituire quelli ormai saturi dei paesi ricchi.

Eppure tutto da noi continuò come se le ricorrenti difficoltà, per eccesso di produzione, fossero puramente congiunturali e non strutturali. Così che ai ripetuti cali delle vendite di auto si provvide oliando il mercato con incentivi fiscali, casse integrazioni e rottamazioni, col risultato di rimandare al futuro, molto aggravati, i costi della crisi. E anche oggi sembra che in questa direzione ci si voglia muovere, cercando disperatamente qualche palliativo che tranquillizzi tutti e in fretta. 

Si dice che il calo delle vendite Fiat è dovuto a carenza di modelli innovativi. Può essere vero in parte, ma di fatto l’intero comparto industriale dell’auto si va ridimensionando e anche l’auspicabile aumento della concorrenzialità della fabbrica italiana non potrebbe reggere e giustificare la sua attuale dimensione produttiva. La presenza di un polo automobilistico di qualità, come volano della ricerca teorica e applicata nei settori della meccanica, della tecnologia e dell’energia è strategica per l’intero apparato produttivo di un paese, ma non chiede né che questa presenza sia necessariamente nazionale, né che abbia le dimensioni elefantiache che essa oggi ha.

In questo senso fu a suo tempo un errore la cessione, anzi il regalo dell’Alfa Romeo fatto dallo stato alla Fiat. Molto più avveduto sarebbe stato accogliere l’offerta dei produttori stranieri interessati all’acquisto. Questo avrebbe forse consentito la presenza concorrenziale di due fabbriche automobilistiche in Italia, più fragili, ma anche più agili nel cogliere le esigenze del mercato e nel realizzare le ristrutturazioni, di volta in volta, necessarie.

Del senno di poi son piene le fosse ed è inutile immaginare un presente diverso sulla base di un ipotetico diverso passato. L’importante è affrontare il presente con sufficiente coscienza degli esiti delle proprie scelte e tra quelle oggi ventilate una ci sembra immorale e due ci paiono illusorie.

È immorale scaricare il costo della crisi sul soggetto più debole, vale a dire sui lavoratori. Siano quattro o ottomila i potenziali licenziati, la loro disoccupazione costituisce un problema sociale il cui costo non i lavoratori, ma la Fiat, in primo luogo, e lo Stato devono affrontare. La Fiat, come grande holding produttiva e finanziaria, provvedendo a una ristrutturazione della sua produzione e della sua organizzazione che consenta il graduale inserimento degli esuberi in attività diverse da quella automobilistica. Lo Stato, intervenendo con i necessari provvedimenti assistenziali, mirati però non a favorire, addolcendola, la disoccupazione, ma a creare le condizioni per un loro diverso reimpiego.

È illusorio pensare a un mantenimento della Fiat auto nella dimensione attuale. Se il settore auto deve sopravvivere in Italia, non può che sopravvivere ridimensionato, o specializzandosi in alcuni settori o confluendo in un complesso produttivo più ampio, possibilmente europeo.

Allo stesso modo è a tutt’oggi illusoria la proposta di un intervento pubblico che porti lo stato a diventare azionista della Fiat: vuoi perché, in mancanza delle condizioni sociali, economiche e politiche per una corretta scelta socialista, resta difficilissimo configurarne le modalità e la legittimità; vuoi perché, nella sua estemporaneità, finirebbe con lo scaricare sulla fiscalità collettiva l’intero costo della crisi Fiat, senza per altro affrontarne le cause.

Bene fanno, dunque, i sindacati a chiedere che il piano Fiat venga rivisto per assicurare il rientro dei cassaintegrati al lavoro e che il governo metta in atto gli ammortizzatori sociali solo in vista di questo obiettivo. Ma sarebbe un errore pensare che tale rientro debba necessariamente essere finalizzato al rilancio dell’auto, proprio come sarebbe sbagliato da parte del governo fare supinamente proprie le tesi della direzione aziendale o lavarsene le mani, come sembra intenzionato a fare, dopo avere inutilmente tentato di barattare la concessione della cassa integrazione speciale con la cessione delle quote azionarie Fiat nei settori dell’informazione e della stampa.

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