La pillola dell'aborto

«Nessuno può con certezza escludere che [l’aborto] sia l’interruzione di una vita umana, che ha gli stessi diritti a vivere che hai tu e che ho io ... Non punire l’aborto o anche assistere sanitariamente chi lo decide, insieme a misure per prevenirlo e evitarlo, è cosa ben diversa dall’approvare che lo si metta in conto come anticoncezionale, sia pure di riserva ... L’aspetto etico perdurerà anche quando la tecnica chirurgica e chimica toglierà ogni visibilità e rilievo all’aspetto giuridico». Così scriveva Enrico Peyretti nel 1986 sul foglio 138 in una lettera a Lidia Menapace.

Oggi con la sperimentazione della RU 486, la cosiddetta «pillola dell’aborto», nell’ospedale torinese Sant’Anna – già diffusa in molti paesi europei, in Francia da una decina d’anni –, si rende possibile in prospettiva il venir meno del problema giuridico, che tanto aveva impegnato gli opposti fronti nel 1981, anno del referendum sulla legge 194. Questa pillola, evitando l’intervento chirurgico, comporterà, di fatto, una minore sofferenza fisica per la donna. Ma non muterà la questione etica sulla possibile contiguità tra aborto e omicidio. Se mai tenderà ad aumentare la solitudine della donna, scaricando il suo uomo, il medico e la società dal compito di offrirle il doveroso confronto del dialogo e il sostegno a reggere il peso della scelta finale, qualunque essa sia.

La sperimentazione si muove nell’ambito della 194 con tutte le sue regole e i suoi limiti. Essa ha fatto diminuire il numero di aborti in Italia (e allo stesso tempo ha evitato la morte di alcune donne costrette all’aborto clandestino). Non si può negare tuttavia che l’aborto è oggi “culturalmente” ritenuto e praticato come anticoncezionale. E qui alla chiesa cattolica si può rimproverare una grave responsabilità di aver favorito la confusione-sovrapposizione tra l’uso dei contraccettivi e la pratica dell’aborto. Ma il fatto resta. Né si può dire l’art. 5 che prevedeva di mettere in atto tutta una serie di aiuti alla donna per rimuovere le cause dell’aborto sia stato rispettato, essendosi di fatto trasformato in una burocratica autorizzazione.

Scrive Mina in un editoriale sulla «Stampa» (3 novembre): «In tutti i casi resta la sconfitta della donna, l’eliminazione di una vita e, fatto mai abbastanza sottolineato, l’estraneità indifferente del maschio ... che in linea di massima se ne fotte, se ne lava le mani e la coscienza e lascia la donna sola e colpevolizzata». E cita Pasolini: «La lotta per la non-procreazione deve avvenire nello stadio del coito, non nello stadio del parto».

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