REFUSNIK IN ISRAELE |
Non spariamo e non serviamo nei Territori |
Quasi 500 ufficiali, sottufficiali e soldati dell’esercito israeliano hanno scelto di rifiutarsi di prestare servizio nei territori occupati palestinesi pagando questa scelta con il carcere. Come già nel caso della guerra in Libano e della prima Intifada, questa scelta potrebbe rivelarsi un contributo per avviare a soluzione il problema dei Territori occupati palestinesi. Itay Ryb, refusnik (cioè «colui che rifiuta») e membro dell’associazione Yesh Gvul («C’è un limite», o anche «Adesso basta!»), è stato in alcune città italiane per incontrare le amministrazioni locali, gli studenti, gli obiettori e naturalmente la popolazione interessata. Noi lo abbiamo ascoltato al Politecnico di Torino in un incontro con gli studenti (non molti, a dire il vero). Il suo racconto è sobrio, privo di retorica, pragmatico. Si capisce subito che lui non è un obiettore totale: non è contrario in linea di principio alla guerra e all’uso delle armi (se c’è un nemico), ma a quell’uso delle armi, nei Territori occupati, contro i civili. Questo, se è possibile, rende ancora più convincente la sua testimonianza. Richiamato come riservista per andare appunto nei Territori, ha dapprima rifiutato, poi messo alle strette ha raggiunto il suo reparto per un pomeriggio rifiutando di obbedire al primo ordine. In questo modo le conseguenze sono state un po’ meno gravi rispetto all’obiezione totale. Ha già fatto un mese in carcere, ma il suo carico giudiziario è ancora pendente. Curiosa la genesi di questo atteggiamento: Ryb è un giovane fisico teorico, ha 26 anni, insegna all’Università di Gerusalemme. La sua famiglia non è scontatamente dalla sua parte: la sorella più giovane, 20 anni, sta anzi svolgendo in modo convinto il servizio militare, il fratello minore lo ritiene un «idealista», la madre lo segue preoccupata per le conseguenze, ma sempre più si persuade della bontà della scelta del figlio. Ryb prima di fare il servizio militare (tre anni, nel Libano del sud), ma forse addirittura fino al richiamo non aveva mai sentito grande interesse per la politica: è stata proprio questa esperienza, l’essere messo di fronte a una decisione, a costringerlo ad aprire gli occhi. Durante il colloquio all’ufficio militare gli hanno perfino detto in modo esplicito: «Non preoccuparti: i lavori sporchi li facciamo noi...» (riferendosi evidentemente alle azioni contro i civili). Ma lui non c’è stato. Non nasconde che questa disobbedienza non trova grande spazio sui mezzi di informazione israeliani, e tuttavia sottolinea che lui un processo legale ce l’ha, mentre forse dall’altra parte, quella palestinese... Su questo fenomeno anche fuori di Israele dovrebbe esserci una maggiore attenzione, così come anche per le associazioni “pacifiste” in campo palestinese (di là non risulta ci siano almeno formalmente associazioni di obiettori). Purtroppo anche il dialogo tra i due campi è fatto di incomprensioni: Ryb racconta che con la maglietta dell’associazione Yesh Gvul si è trovato più di una volta oggetto di insulti quando non di violenze. E dire che la scritta sulla maglietta, in ebraico, è inequivocabile: tutte espressioni che condannano le operazioni di guerra nei Territori. Un’altra testimonianza sul primato della coscienza e allo stesso tempo sul «rifiuto selettivo», che rifiuta l’abuso del potere militare per fini indegni, quali le guerre di aggressione o la soggiogazione violenta di popolazioni civili, la troviamo nel bel sito dell’associazione (www.yesh-gvul.org). È di David Enoch, luogotente riservista, condannato a 25 giorni di carcere per aver rifiutato di servire nell’area di Ramallah: «Io non volevo rifiutare di obbedire agli ordini. Non avevo previsto di arrivare a questo momento. Se ci fosse stato un modo di evitarlo, penso che l’avrei fatto... Ma ci sono delle volte nelle quali non c’è altra scelta che rifiutare. Quell’unica scelta, è l’aspetto personale del rifiuto. La mia linea rossa non è la tua, e viceversa. Ma superare quella linea rossa sarebbe una resa della tua personalità, della tua unicità, dei tuoi valori e, soprattutto, dei dettami della tua coscienza. Io non avrei voluto rifiutare alcun ordine nel prestare servizio nei territori. Ma mi era stato ordinato di spendere tre settimane scortando e proteggendo coloni. Sono stato condotto a compiere cacce all’uomo su passanti palestinesi, a compiere arresti ogni volta fosse necessario. Se lo avessi fatto non sarei stato me stesso». a.r. |