PER LEGGERE LE SCRITTURE |
Simbolo e diavolo |
È chiaro che per interpretare una pagina biblica bisogna possedere gli strumenti elementari della sua comprensione. Il che non significa solo non essere analfabeti, ma anche avere un’adeguata conoscenza del quadro culturale in cui essa è nata e dei dati storico-critici sulla sua formazione. Ma questo non basta. Essenziale è anche saper leggere gli scritti, tenendo conto del loro genere letterario e di quegli strumenti che l’analisi linguistica ci mette a disposizione. Solo così si riesce ad evitare di finire come lo stolto del detto cinese, che, invitato a guardare la luna, si ferma al dito che la indica; o peggio, al cane dello spot pubblicitario, che addenta il fondoschiena del povero jogger solo perché vede lì appiccicato il bollino della «melinda». Nel racconto, compresi i racconti evangelici di testimonianza, il linguaggio è sempre simbolico e il simbolo non è mai vuoto espediente retorico. È cuore e sale del messaggio, che non esisterebbe, né potrebbe prendere forma ed essere trasmesso, se simbolo non diventasse. Ora ogni interpretazione letterale e puramente segnaletica del simbolo (l’etichetta posta sul frutto o sulla chiappa a certificare che quella è proprio una mela «melinda»), non solo impoverisce, ma sterilizza e devia il messaggio verso fini secondari, come accadrebbe all’amata che pretendesse di verificare l’attendibilità della dichiarazione dell’amante «Il mio cuore arde per te!», cercando i segni fisici del fuoco sul suo petto, invece di quelli etico-spirituali dell’amore nei suoi atti. Non separare, né identificare Il simbolo unisce elementi diversi, che diversi devono restare affinchè il linguaggio abbia efficacia e la parola possa dire ciò che è dicibile e ciò che dicibile non è. Quando è dicibile, esprimendo la realtà sperimentata con una combinazione di segni che permette di renderla presente in forma di significato, anche se non è presente di fatto, perché passata, futura o lontana («Avevo una spina nel dito»). Quando è indicibile, producendo spostamenti di senso (metafore) che, grazie all’unione verbale di distinte realtà materiali, ne evocano una terza, spirituale e nascosta, che viene resa evidente e operativa sul piano esistenziale e storico («Mi è stata messa una spina nella carne»). Non sono dunque solo la poesia e la creazione narrativa di tipo letterario a usare il simbolo. È la lingua in tutti i suoi usi, da quelli del parlare quotidiano a quelli della più elevata riflessione spirituale e teologica. E questo perché il simbolo ha la capacità di porre in relazione e far convivere fecondamente alterità irrelate che, intrecciandosi tra loro nel linguaggio, acquistano ordine e ci consentono di costruire e rinsaldare quel mondo che il diavolo vuole distruggere, frammentandolo nell’esplosione dei separati o sprofondandolo nell’implosione degli identici. Il diavolo come simbolo, vale a dire come simbolo dell’opposto del simbolo, perché sym-bolon vuol dire «mettere insieme» e diá-bolon significa «dividere», «calunniare», «falsificare». Ora noi crediamo di sapere come il diavolo opera sul piano teologico, spirituale e morale, ma assai poco abbiamo riflettuto su come esso operi sul piano del linguaggio, della poesia e del racconto, o meglio sul piano dell’interpretazione della Scrittura. Ebbene la Bibbia ci suggerisce due sue possibili strategie. In Giobbe Satana, mitico personaggio diabolico, lavora a separare l’uomo da Dio, a farne eplodere la diversità e l’incomunicabilità, spingendo Dio a sospettare di Giobbe e Giobbe a maledire Dio. Ne esce sconfitto perché Giobbe rifiuta di annullarsi davanti a Dio, ma resiste e gli sta a fronte fino a che il legame tra diversi si ricostituisce. Nel deserto, ancora Satana tenta di indurre Gesù, come già Adamo e Eva nell’Eden, non alla separazione ma all’identificazione con Dio, interpretandone la potenza in termini di potenza umana. Sarebbe la fine di Dio, la sua riduzione a mondo, vale a dire la sua diabolizzazione. Gesù rifiuta e riafferma quel difficile equilibrio tra separazione e relazione che abbiamo detto «simbolo», permettendo, ancora una volta, a Dio e all’uomo di convivere nella storia e nel linguaggio. In altri termini, una lettura simbolica del linguaggio e del racconto non confonde parola e cosa, ma neppure le separa. Si sforza di cogliere nella relazione tra diversi il farsi presenza del terzo, l’indicibile, quello che ancora non c’è, ma viene evocato e invocato. Una lettura diabolica invece confonde parola e cosa, ne fraintende la relazione in termini di identità o di alterità assoluta. Una grande metafora Se tentiamo di applicare tutto ciò al linguaggio del Vangelo secondo Giovanni ci accorgiamo subito di trovarci non nel regno del dicibile ma in quello dell’indicibile. Più ancora degli altri vangeli esso si vale della metafora, anzi è, nel suo insieme e per esplicita scelta del suo stesso autore, una grande metafora. La metafora della Parola di Dio che si fa carne e lancia nella realtà del mondo quei segni di assoluta novità che devono suscitare la fede nella cristicità di Gesù. Basta leggerne l’inizio e la fine per rendersene conto. Apre con l’inno sulla preesistenza della Parola, sulla sua efficacia creatrice e redentrice, sulla sua rivelazione storica in Gesù, e termina con la dichiarazione che «i segni» da questi operati, «sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,30). Ci muoviamo nell’orizzonte della potenza della Parola e della testimonianza dei «segni», orizzonte che è quello della fede e non quello della certezza razionale o dell’evidenza storica e scientifica. Il che comporta una relazione, ma anche una distinzione, nel linguaggo testimoniale di Giovanni tra lettera e significato del racconto, tanto più che spesso già a livello della lettera egli mette in gioco la metafora, come nel Prologo. Per presentare il mistero di Gesù egli, infatti, utilizza qui il linguaggio della «preesistenza», già elaborato dal giudaismo antico. Come la Sapienza e le Legge, per i giudei, così il Cristo, in quanto di Parola di Dio, precede, per la comunità giovannea, la creazione e ad essa presiede. Il che serve non per affermare la sovrastoricità metafisica di Gesù, ma per collocarne la comprensione di fede in un preciso orizzonte teologico-simbolico. Allo stesso modo quando Giovanni, prima della conclusione, ci presenta l’episodio di Tommaso che per credere deve vedere con l’occhio e toccare con la mano il Crocefisso risorto, non lo fa per offrirci l’incontrovertibile prova della fisicità della resurrezione, ma per sintetizzare in un’immagine particolarmente efficace tutta la difficoltà del credere e tutta la potenza generatrice di fede di questo indicibile evento. Che tale fede debba poi far propria, oltre alla verità dell’annuncio della resurrezione, anche quella dell’autenticità storica delle diverse narrazioni evangeliche che la rappresentano, Giovanni lo esclude subito, mettendo in bocca a Gesù questo ammonimento: «Perché hai veduto hai creduto. Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno». Ancora una volta la veridicità del racconto, la credibilità del messaggio, nulla ci guadagna dall’essere identificata con la pretesa veridicità letterale dell’episodio narrato e della realtà oggettiva evocata. Anzi ci perde, perché tale identificazione lo coinvolge nel problema della sua attendibilità storica e empirica. Problema irresolvibile e capzioso, che fa perdere di vista l’essenza della questione: la novità irriducibile della cristicità di Gesù rispetto ai criteri della storia e alle leggi della scienza, la sua apertura all’alterità del Regno, a un mondo e a una vita che nella storia non possono avere piena realizzazione, ma che già è possibile anticipare nella fede, nella speranza e nella carità. I segni e la fede Il che vale per i racconti della resurrezione e dei miracoli, non meno che per ogni altro gesto o parola di Gesù, come mostra bene l’insistenza di Giovanni sulla necessità di superare la lettura materiale per accedere alla comprensione e alla fede. È un tema che ritorna più volte nei primi capitoli del suo vangelo, a partire dallo scontro sulla distruzione e ricostruzione del Tempio in tre giorni, anticipato da Giovanni all’inizio della missione di Gesù (2,13-22), per finire al vero significato della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,26-27); non senza essere passato attraverso i dialoghi con Nicodemo e con la Samaritana sul «rinascere» (3,4-6) e sull’«acqua viva» (4,10-14). Là dove gli interlocutori restano nell’oscurità e nell’errore finchè interpretano le sue parole in termini di fattualità storico-empirica («Come può rinascere un vecchio? Può forse tornare nel ventre della madre?» 3,4) e i suoi gesti in ottica di potenza-mondana («Voi mi cercate perché avete mangiato pane a sazietà» 6,26), egli invita a non fermarsi alla lettera e alla carne, ma a cogliere lo spirito (6,63-64) così da riconoscere e credere con Pietro che lui «è il Santo di Dio» (6,69). Così dobbiamo fare anche noi nell’interpretare gli atti e i detti di Gesù. Essi ci chiedono di essere capiti nella loro simbolica e globale esemplarità senza cercare nei particolari possibili tracce di veridicità cronachistica. Altro è il radicamento storico della veracità del segno offertoci da Giovanni: non un singolo fatto, più o meno compatibile con la nostra visione scientifica della realtà, ma la complessiva esperienza di fede della forza risanatrice e innovatrice di Gesù. Diamo al simbolo ciò che è del simbolo e diamo alla storia e alla scienza ciò che è della storia e della scienza, senza chiedere loro diabolicamente di imporci quei segni dall’alto o dal basso che ne annullerebbero la diversità e che, per grazia di Dio, non possono offrirci. Aldo Bodrato |