DOPO LA TRAGEDIA DI MOSCA VERSO QUELLA DI BAGHDAD
Terrorismo & Impero

La tragedia di Mosca, mentre rilancia nell’opinione pubblica l’impressione che il terrorismo sia oggi il problema dei problemi, obbliga anche noi, che questo non pensiamo, ad alcune riflessione inevitabili, ma non definitive, visto i limiti delle informazioni ufficiali e giornalistiche.

Da sempre sappiamo che il terrorismo, quando non è fenomeno individuale e occasionale, ma espressione di gruppi organizzati e finalizzati a qualche obiettivo, nasce da una situazione di oppressione e di conflitto interno o esterno, lasciato incancrenire tra l’indifferenza generale. Era il caso, fino a ieri, dell’Irlanda del Nord. È il caso, oggi ben più grave, della Cecenia, occupata dai russi e travolta da una guerra che sembra non avere fine.

È il caso anche di Bali e delle torri di New York? Non è altrettanto evidente, in mancanza di un riferimento immediato a precisi atti di guerra dei paesi nord-atlantici contro gli stati islamici dei terroristi. Ma è chiaro che atti di guerra intollerabili sono da questi considerati il protrarsi oltre ogni misura del conflitto israelo-palestinese e la sostanziale subalternità dell’Oriente islamico all’Occidente cristiano, esasperata dall’appoggio americano a Israele e dalla presenza ultradecennale di reparti militari anglo-americani nel Golfo Persico ed ora, anche di vari paesi europei, in Afghanistan.

La situazione terribile dell’Africa, vittima, oltre che della spogliazione internazionale anche di continue e sanguinose guerre intestine, ci insegna che, in mancanza di una coscienza collettiva di appartenenza, spesso la ribellione all’oppressione si sfoga in conflitti sociali o tribali, in lotte tra poveri. Così non è per l’Asia islamizzata, dove lo spirito di appartenenza a una sola credenza religiosa, un relativo maggiore benessere e una formazione culturale più elevata aprono la strada a progetti ideologico-politici più generali e ambiziosi.

È comprensible dunque che quanto detto sopra possa portare alcuni esponenti delle società islamiche a un’ideologia che traduce i conflitti sociali e politici in conflitti etnico-culturali e persino religiosi, e che offre una lettura semplificata dei problemi del mondo, contrapponendo in modo manicheo l’islam oppresso all’Occidente oppressore. Ecco allora che la miscela tra visione ideologica neo-islamista, oscillante tra delirio di onnipotenza e mania di persecuzione, e reali singole condizioni di oppressione ingiusta, quali Palestina e Cecenia, può diventare il detonatore del terrorismo. Nel qual caso per rispondere in modo efficace bisognerà porsi prima che in ottica militare in prospettiva politica e culturale, sanando le ragioni concrete di conflitto e impostando su basi più equilibrate e paritarie i rapporti tra Occidente e resto del mondo.

Una logica autodistruttiva

Se il terrorismo di matrice islamica ha dietro di sé un’ideologia, possiamo anche dire che ha una strategia e che segue una logica capace di condurre a un qualche fine preordinato? A prima vista parrebbe di sì. I suoi obiettivi sono ben individuati e colpiti con straordinaria efficienza. Ma seguire un certo ordine nella successione degli atti, essere in grado di utilizzare sofisticati strumenti tecnici e di realizzare complesse manovre di infiltrazione per provocare il massimo danno possibile, non significa ancora avere una logica e una strategia a lungo respiro.

Paradossalmente il terrorismo ideologicamente meno elaborato di un movimento che si prefigge la pura e semplice sconfitta del nemico nazionale per giungere alla liberazione del proprio popolo, può essere frutto di una progettazione soggettivamente meno ambiziosa, ma oggettivamente più mirata e potenzialmente efficace, dunque più logica. Al contrario, quanto più è generale e generica nei suoi obiettivi, quanto più è dilatata nel tempo e nello spazio la sua ambizione progettuale, tanto più l’azione terroristica diventa strutturalmente fragile e disperata.

Lo mostra anche la strategia di allargamento del fronte nemico messa in atto con gli ultimi attentati. Pretendere che la rinascita islamica possa avvenire a partire da uno scontro planetario che dovrebbe vedere l’islam contrapposto al resto del mondo non è eroico ma demenziale. Qualcuno potrebbe dire «apocalittico», se, per un uomo di fede ebraica, cristiana o islamica, l’apocalisse potesse essere frutto di un progetto umano. Diciamo allora «catastrofico», dove è chiaro che la catastrofe non è mai frutto logico di un progetto, ma semmai del suo abortire, del suo fallimento: lo svelamento definitivo della sua illogicità oltre che della sua disumanità.

Non per nulla una delle caratteristiche salienti di questo terrorismo è il suicidio. Anche simbolicamente esso è senza sbocco. Non prevede la possibile uscita verso una vita migliore. La nega a sé e agli altri. È punitivo e autopunitivo. Distruttivo e autodistruttivo. Nella sua sostanziale illogicità e disumanità ha comunque una chance, che gli altri lo seguano nel baratro che esso ha scavato e continua a scavare nelle coscienze individuali e sociali, che la sua logica-illogica di guerra e di violenza risvegli la logica-illogica di guerra di violenza che si nasconde nel cuore degli uomini e che è sempre pronta a esplodere nelle società che sognano o rimpiangono l’impero.

Inefficienza della guerra

Il protrarsi all’infinito del conflitto israelo-palestinese la dice lunga sull’inefficacia di una risposta armata alla armi. Il crescente bilancio di violenze e di morti in questa terra, in cui sono risuonate nei secoli straordinarie parole di pace, insegna che nessuna politica del colpo su colpo è in condizioni di garantire che l’ultimo colpo lasci ancora qualcuno in vita. Tantomeno una guerra preventiva può evitare il proliferare del terrore, che la guerra prepara e dalla guerra è alimentato.

Aggredire militarmente l’Iraq per destabilizzare una dittatura non può in alcun modo configurarsi come azione anti-terroristica. È, come si usa dire, terrorismo di stato o meglio terrorismo tra stati, capace al più di provocare altri focolai di terrore. Proprio come usare gas letali come arma antiterroristica significa suggerire, anzi, sollecitare i terroristi a fare questo stesso passo nella loro strategia di morte.

Più realisticamente di Bush, Putin vede i pericoli di una guerra all’Iraq e con la Francia e la Cina si oppone nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu a una mozione che legittimi Stati Uniti e Gran Bretagna a procedere da sole. Ci chiediamo se resisterà fino alla fine o se cederà in cambio della mano libera in Cecenia. Fin d’ora, comunque, mostra al mondo che la Russia ragiona come l’America: agisce secondo strategie imperialistiche capaci solo di imporre, non di trattare alla pari.

Ma figlio ribelle dell’imperialismo è il terrorismo. Hanno lo stesso Dna. Infatti Putin, dopo aver creato con la sanguinosa guerra in Cecenia i presupposti per l’attentato di Mosca, non ha forse deciso di sacrificare, con l’uso dei gas, vite innocenti per averla vinta sui nemici? Non ha trasformato gli ostaggi russi in kamikaze involontari per eliminare i kamikaze volontari ceceni?

Pochi, ma ancora troppi sono disposti o sono costretti a morire per la guerra. Molti, ma ancora troppo pochi sono pronti a sacrificare qualcosa per costruire concreti percorsi alla pace.

Eppure è ormai evidente che la stessa strategia antiterroristica, messa in atto dai poteri forti dell’America e della Russia, ha come prime vittime i popoli che essa intende difendere, non solo afghani, iracheni e ceceni, che per riportare sotto la propria ala protettiva Bush e Putin sono disposti a massacrare, ma anche americani e russi, che vedono progressivamente restringersi gli spazi, più o meno ampi, di libertà e di benessere da sempre goduti o da poco intravisti.

Democrazia a rischio

La politica del terrore non ha oggi tutto lo spazio e la risonanza che ha per opera del solo terrorismo. Essa è utilizzata e amplificata anche dai regimi politici che sulla lotta al terrorismo progettano le proprie fortune e che del terrorismo intendono servirsi come motivazione per riaffermare e mantenere il proprio controllo sui cittadini e sui popoli che detengono ricchezze economiche sfruttabili.

Non c’è bisogno di essere anti-americani o anti-russi per cogliere questo lato oscuro dell’odierna situazione mondiale. Basta avere qualche conoscenza della storia dell’imperialismo per rendersi conto che per esso è essenziale il richiamo a una possibile guerra di civiltà, sia pure in forma di minaccia da scongiurare o anticipare. Costituisce la base giustificativa e ideologica di ogni politica di aggressione e di dominio. Da sempre l’impero difende i supremi valori della civiltà contro le barbarie. Nel nostro caso della democrazia occidentale contro l’integralismo islamico.

In nessun modo si può nascondere che le forme terroristiche di cui questo integralismo si serve ne denunciano la matrice regressiva e anti-umana. Esso è da contrastare e combattere con tutti gli stumenti culturali e politici della democrazia, che non affida più alla guerra il ruolo principe e centrale, ma la relega tra le possibilità estreme e disperate. 

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