LIBRI |
Tutto ciò che muore |
C’è un filo rosso – altri ve ne sono, ma nessuno di percezione tanto disagevole – che si dipana lungo il pensiero e l’arte occidentali, un filo che congiunge alcuni versi oracolari di Teognide al gemito morente di Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad: a questo filo sta appesa la consapevolezza che il mondo trabocca di un orrore che non conosce antidoto. Quel medesimo orrore che vibra nell’urlo di un volto quasi rattrappitosi in teschio nel quadro più celebre di Munch. L’eco di quest’urlo è anche la raccapricciante colonna sonora di Every Dead Thing di John Connolly. Tradotto in italiano dalla Rizzoli (ora in edizione economica Bur) con il titolo Tutto ciò che muore, Every Dead Thing è un thriller, da smercio all’ingrosso, più vicino a Dostoevskij di svariate monografie a Dostoevskij dedicate – fatto che può sembrare un curioso affronto solo al lettore inamidato che non sospetta la forza tragica che anima la letteratura noir, o, per converso, a chi non si è mai accorto della centralità che il noir possiede in Dostoevskij. Nel libro di Connolly si respira l’atmosfera classica del poliziesco americano: la sua scrittura d’immediatezza “cinematografica”, la tipologia del detective, la spavalderia per palati facili del protagonista, calata nella cornice delle figure di genere: agenti federali, boss, sicari di professione. E non sarebbe troppo arduo mettersi in cerca di ingenuità stilistiche, raccordi convenzionali o dialoghi eccessivamente aderenti al gergo di maniera. Ma le pagine di Tutto ciò che muore conducono ben oltre, forti della capacità di calarci nella densità fisica del male come ben difficilmente un saggio di teologia può essere in grado di fare. Dietro alle efferate «lezioni di mortalità» del Viaggiatore, una sorta di idea platonica del serial killer, ed alla cortina di diffidenza degli abitanti di Haven in Virginia emergono, chiaramente decifrabili, i due poli narrativi che compongono l’assoluta sostanza letteraria di questo romanzo: lo scandalo del dolore, soprattutto quello infantile, e la memoria necessaria di esso, il bisogno di sottrarre i volti delle vittime all’indistinzione del tempo. Già in apertura di narrazione la soglia ordinariamente accettabile di sofferenza viene valicata, con l’agghiacciante assassinio della moglie e della figlia del personaggio principale, ed il resto del romanzo si identificherà anche con il tentativo, quasi irrealizzabile, di elaborazione di questo lutto da parte del loro marito e padre: “mentre qualcuno mi portava via moglie e figlia, io stavo trangugiando bourbon al bar. Ma loro tornano ancora nei miei sogni, a volte sorridenti e bellissime com’erano in vita, altre volte prive di volto e insanguinate come le ha lasciate la morte, e mi attirano ancora più a fondo in un’oscurità in cui l’amore non ha spazio e in cui il male si nasconde, adornato da migliaia di occhi ciechi e dai volti scorticati dei morti». Gli innumerabili morti ignoti della storia, le innocenze devastate – vite che sembrano fiorire unicamente per andare incontro ai loro carnefici –, lo spalancarsi inatteso di atrocità incomprensibili e, forse, la disperante ineluttabilità di tutto ciò: su questo ha scritto Connolly. M.F. |
Gesù non era un moderato |
Ha ragione Pozzoli di notare che «uno dei problemi più urgenti nella Chiesa è quello di dare spazio ai piccoli, non per una condiscendenza di tipo paternalistico, ma per un cambiamento radicale di prospettiva ... I poveri e gli emarginati, invece di essere solo oggetto di beneficenza, sarebbero, per così dire, la struttura del pensiero, delle scelte, della pastorale, dell’organizzazione della Chiesa», così come ha ragione di aggiungere: «Ma è una conversione che ancora non è stata sufficientemente affrontata e attuata»; «La lezione dei piccoli attende ancora di essere raccolta» (p. 31). Il suo contributo alla rivalutazione della piccolezza si sviluppa in tre tappe: riflessioni generali sul tema, soprattutto per mostrarne le radici evangeliche; analisi di aspetti della vita quotidiana importanti in rapporto ai piccoli: gioia, lacrime, humour, saggezza, ecc.; presentazione di figure evangeliche collegabili con la piccolezza, a partire da Gesù bambino, Maria, Giuseppe, per arrivare a personaggi minori come il cireneo, Cleopa e il suo compagno. Il linguaggio è discorsivo, ricco di citazioni, aneddoti, osservazioni psicologiche e sociologiche, anche di ricordi personali; il tono è sentenzioso, ma volutamente semplice e accattivante. Non mancano considerazioni impegnate e prese di posizione polemiche, come quelle a proposito di «i piccoli e il potere»: «È triste osservare che, quando si parla di cattolici, si pensa sempre che essi debbano costituire l’ala moderata della società. Ma i cattolici non sono chiamati a costituire il club dei moderati come se il mederatismo fosse il loro atteggiamento naturale. Si pensi anche solo ai grandi cristiani di questi ultimi decenni: i vari Mounier, Mazzolari, Bonhoeffer, Milani, Turoldo, Camara, Romero, Tonino Bello e molti altri non sono mai stati dei moderati come non era un moderato Gesù» (pp. 72-73). • Luigi Pozzoli, Elogio della piccolezza, Paoline, Milano 2002, pp. 160, euro 9. C.M. |