CINEMA |
Rapporto di minoranza |
Minority Report di Steven Spielberg può agevolmente venir accostato a A Clockwork Orange per l’affinità dello scheletro narrativo. Non si tradisce il loro spirito, infatti, se li si definisce entrambi degli apologhi «sull’importanza di poter scegliere», come Burgess stesso ebbe a dire del suo romanzo. Tutti e due i film, peraltro, nel raffigurare – con più glaciale affabulazione quello di Kubrick, con maggior caratterizzazione sentimentale del protagonista quello di Spielberg – le seduzioni perversamente totalitarie in cui l’utopia dell’ordine potrebbe sfociare, lasciano anche risaltare, come un gioco di ben definite ombre cinesi sullo sfondo, l’opprimente presenza della malvagità umana, il suo compiersi criminale, persistentemente anarchico. Lavorando su di un racconto di Philip K. Dick Spielberg dà vita a un film in cui, contrariamente a quanto si potrebbe credere, è la sobrietà visiva a prevalere, un film che, come quello immediatamente precedente, è anche una dolente elegia dell’infanzia negata, uno sguardo sull’assolutezza dell’amore familiare, e nel quale il maggior sforzo registico del suo autore, più che nelle dinamiche, del resto impeccabili, degli effetti speciali, sembrerebbe condensarsi nella ricerca di tonalità adeguate a filmare l’emozione del rimpianto, il dominio impalpabile di ciò che si è perduto. Dei veggenti destinati a un rigoroso isolamento, i precog, sono il cardine di un’avanzatissima struttura tecnologica che permette a una sezione di polizia sperimentale di Washington di arrestare i criminali prima del compimento del delitto, focalizzandone l’intenzione ancora inattuata. La pellicola, come piuttosto noto, da qui prende avvio, e da qui possono dipanarsi le fila di un dibattito, dalle modulazioni sconfinate quanto imprescindibile e doveroso, sulla perenne dialettica tra prevenzione e libertà. C’è però un secondo cuore del film, un po’ dissimulato e riconoscibile solo con qualche fatica. Uno dei componenti della sezione precrimine afferma (ma nel racconto di Dick queste parole non si trovano) di sentirsi più prete che poliziotto, aggiungendo che ne è prova il termine con il quale loro stessi designano il luogo in cui i precog vengono tenuti: il tempio. Sembra abbastanza per alimentare un interrogativo mai desueto: dove è posto il confine fra religioso e secolare? È questo il quesito abissale che il film per un attimo costeggia, per occultare poi quasi subito dietro alla più ordinaria suspense di un innocente (ma da lì a poco colpevole?) in fuga. Circa un secolo fa, a una società convintasi che i conti con il sacro potessero considerarsi ormai chiusi, Durkheim donava la più feconda delle sue intuizioni: l’equivalenza di religioso e sociale. Un modo fra altri per ricordarsi che di quel magma, fuso negli elementi più disparati, che prende il nome di “religioso” non sarà mai facile sbarazzarsi e che proprio quando si crede d’esservi riusciti è in grado di rinascere sotto forme sino a un istante prima impreviste, ad esempio come tecnologia. Perché di certo la tecnica, nella sua ferrea polarità di emancipazione e asservimento, sta nel cuore profondo della religiosità contemporanea (peraltro colui che scegliesse di vedere solo l’una o solo l’altro, solo emancipazione o solo asservimento, ne eluderebbe infallibilmente l’ambigua complessità). Chi crede in un Dio tradizionale si affretterà verosimilmente a precisare che alla tecnica può tutt’al più spettare il rango di parodia del religioso, simia Dei ammaliante e ingannevole, ma ciò non toglie che sempre dei nostri rapporti con il sacro continua a trattarsi – l’anticristicità non è forse un momento del divino? Massimiliano Fortuna |