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Risorto o vivo nel ricordo? |
Confessare Gesù è risorto, è come dire il Che è vivo? A conclusione del dibattito sull’interpretazione del racconto giovanneo su Lazzaro (il foglio 293), qualcuno si era infatti chiesto se, interpretando come metafore le testimonianze neotestamentarie sulla corporeità del Risorto, visto mangiare e toccato con mano dai discepoli, non si rischiasse di ridurre la fede nella sua e nostra resurrezione dai morti all’ipotesi di una sopravvivenza, più o meno evanescente, nel ricordo e nel pensiero. Da cui l’interrogativo. La domanda è chiaramente provocatoria, ma lo stato della conoscenza biblica e linguistica dei comuni credenti e dei livelli medio-alti della cultura religiosa italiana (preti, vescovi, professori e intellettuali laici compresi), la rende accettabile. Lasciamo dunque perdere l’abisso che separa le due personalità messe in campo. Prendiamo il toro per le corna e, dopo aver confessato che siamo tutti apprendisti in ricerca e che anche gli esegeti litigano sul peso storico dei racconti di resurrezione, proviamo a fare il punto della questione così come oggi si pone. Innanzitutto, dire di un morto che è vivo o che è risorto significa formulare una convinzione personale profonda per mezzo di un’ardita metafora del cui valore di verità ci si assume tutta la responsabilità, coscienti di contraddire il sapere comune. In secondo luogo, quando il linguaggio simbolico usa metafore diverse per esprimere aspetti, nascosti ma simili, della realtà, intende sottolineare insieme alle somiglianze anche le diversità. Infine, per capire il senso di ciascuna di queste metafore bisogna indagarne lo sviluppo all’interno del contesto esistenziale, culturale e narrativo. Sempre, infatti, quando si vuol parlare dell’esemplarità di una persona e dei fatti che la riguardano, si cerca di collocarli in una storia, per raccontarla e farne emergere i valori essenziali. Il Che vive e vive anche Gesù Di molti eroi del passato si raccontano storie che ne conservano la memoria. All’alba della letteratura greca Esiodo loda la poesia proprio per la sua capacità di consolare gli uomini dalla morte, garantendo, almeno ai grandi, la sopravvivenza nel canto. L’Ellenismo metterà in scena una disputa tra poeti e scultori su quale tra le arti garantisca meglio ai committenti la vittoria sull’oblio. Il tema della possibilità di sopravvivere alla morte grazie al ricordo delle proprie imprese è comune a tutte le antiche culture. «Molti (re, legislatori, sapienti, poeti e profeti) meritarono lode dai contemporanei – dice in sintesi il Siracide –, ma pochi lasciarono traccia oltre la loro generazione... e sono quelli il cui cammino è stato ripreso e continuato dai discendenti. I loro corpi furono sepolti, ma il loro nome vive per sempre» (44,1-15). Ecco perché possiamo dire che, forse per qualche tempo ancora, il Che è vivo. Ma ciò non basta. La metafora dell’eroe, la cui esistenza supera la sconfitta della morte, non si esaurisce nella sopravvivenza della sua fama, grazie alla poesia e al ricordo. Sulle tracce del Siracide e sullo slancio della visione biblica della storia, essa assume il volto della speranza e dell’impegno a raccogliere il testimone e a continuare l’opera iniziata. È il senso vero e forte, almeno nell’intenzione di chi lo proclama, dell’è vivo applicato al Che in quanto rivoluzionario che incarna precisi ideali sociali e politici. Significa che il Che vive e vivrà per sempre nell’azione rivoluzionaria, negli ideali sociali e politici di coloro che a lui si ispirano. La sua storia continua nella loro storia e forma un racconto unico, che si potrà dire concluso solo con la realizzazione definitiva del suo e del loro sogno. Proprio quello che di Gesù affermano i vangeli, le epistole e l’Apocalisse, ogni volta che dicono di lui che promette di essere accanto ai suoi fino alla fine dei tempi, che mai li lascia soli, che cammina con loro, che li invia ai confini del mondo per annunciare il suo messaggio a tutte le creature e a continuare la sua opera di salvezza, ripetendo quello che lui ha detto e ha fatto. Ora, però, gli scritti neotestamentari, quando vogliono invitarci a sentire che Gesù è vivo, ribadiscono questo, ma non solo questo. Alla metafora del vivere aggiungono, infatti, quella del resuscitare: metafora inedita e quanto mai difficile da dipanare, perché non si limita a dire che Gesù vive oltre la croce nella continuazione della sua opera e del ricordo, e neppure vuole essere intesa come un suo puro ritorno alla precedente condizione storica, ma suggerisce la definitiva vittoria sulla morte, il compiuto ingresso nel Regno, l’inaugurazione di un’esistenza mai prima sperimentata, libera da tutte le limitazioni terrene e materiali, fame e sete, male e morte inclusi. Chiunque può rendersi conto che da questo punto di vista il tanto controverso richiamo in vita di Lazzaro dal sepolcro non può essere letto come un racconto di resurrezione. Esso è al più un caso estremo di guarigione da una malattia mortale. Infatti Lazzaro, strappato temporaneamente alla tomba, resta sottomesso all’umana condizione di mortalità e può rientrare nei progetti omicidi degli avversari di Gesù (Gv 12,10-11). Non così il Risorto, il cui stato di vita è presso Dio (Gv 16,28). Solo Gesù è risorto Che significa dunque: «Gesù è risorto», se non vuol dire che è tornato vivo come noi? Possiamo tentare di rispondere solo interrogando gli scritti neotestamentari, in primo luogo gli Atti degli apostoli e le Lettere di Paolo che ci offrono le testimonianze più antiche (indirette gli Atti, dirette Paolo) delle convinzioni di fede e delle attese espresse per mezzo di questa metafora da coloro che l’hanno coniata. Qui ci attende una prima sorpresa. Tutti i discorsi messi da Luca in bocca a Pietro, dopo la discesa dello Spirito, presentano il nostro tema in questo modo: Gesù è venuto a compiere le promesse di Dio, ma è stato ucciso dagli uomini. Dio allora lo ha resuscitato, liberandolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Grazie a ciò la sua opera di salvezza continua attraverso i suoi discepoli ed egli la guida dall’alto dei cieli sino al suo pieno compimento (At 2,22-24; 3,15-16). Il che è come dire che, di fronte alla morte del suo campione, non i seguaci, ma Dio stesso proclama che «Gesù vive» e la Sua parola creatrice e salvatrice chiama Gesù a una nuova vita, capace di riassumere in sé tutta la passata esistenza e di aprirla a inattesa pienezza. «Gesù è stato resuscitato da Dio»: ci dicono i Sinottici, gli Atti e Paolo. «Gesù è risorto», per la potenza ricevuta dal Padre, ci dice Giovanni. E l’uno e gli altri hanno in comune la convinzione che tale resurrezione non è fine a se stessa, ma è la «primizia» (I Cor 15,20-23) di una processo salvifico che coinvolge l’uomo e l’intera natura (Rm 8,11-23). Ed ecco la seconda sorpresa. Quando parla di resurrezione Paolo dimostra di conoscere bene lo straordinario potere rivelatore di questa metafora, ma di non essere in grado di tradurla con chiarezza in esperienze definitive e in eventi descrivibili con univoca oggettività: «Ciò che uno già vede non lo può sperare. Ma se speriamo quel che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). Nella I Tessalonicesi, che è il suo testo più antico, egli cerca di offrire in proposito una risposta accettabile ai suoi interlocutori, che si chiedono qual è la sorte di coloro che sono morti prima del secondo ritorno glorioso del Cristo. Così dopo avere riaffermato che Dio ha resuscitato Gesù e che radunerà con lui tutti i credenti nel giorno ultimo, ribadisce che i credenti morti non saranno svantaggiati rispetto ai vivi, perché, solo dopo che essi saranno risorti, «tutti insieme verremo rapiti tra le nuvole per andare incontro al Signore nell’aria» (4,13-18). Nulla di più immaginifico e concettualmente fragile, tanto che, riprendendo il tema anni dopo, chiarisce che la resurrezione non va intesa come semplice ritorno fisico allo stato precedente, ma come passaggio dal corruttibile all’incorruttibile, dalla materia allo spirito, dalla terra al cielo, come trasformazione, a cui dovranno essere sottoposti anche coloro che al ritorno del Risorto saranno rimasti in vita, e Paolo tra questi sempre si colloca (I Cor 15,51-53; II Cor 5,1-5). Ora la strada che Paolo ci indica per parlare della resurrezione-trasformazione di coloro che sono morti e vivono in Cristo non può non valere anche per ciò che dicono gli altri scritti del Nuovo Testamento a proposito della resurrezione di Gesù. Certo i testi che dovremo interrogare in proposito sono altri, vale a dire i capitoli conclusivi dei quattro vangeli. Lo faremo. Da subito ci sia però consentito osservare che Paolo quando, a conferma dell’autenticità della fede nella resurrezione di Cristo, elenca i testimoni: Cefa, i Dodici, cinquecento fratelli in una volta sola, Giacomo e tutti gli apostoli, non consuma una sola parola per descriverci lo stato ontologico del Risorto e tanto meno la sua eventuale condizione storica. Anzi, senza alcuna cesura, continua l’elenco delle apparizioni fino a quella che lo consacra apostolo, ponendola sullo stesso piano delle altre, sebbene sia avvenuta ad anni di distanza in un contesto esperienziale che esclude ogni possibile riferimento a verifiche dell’identità fisica del Risorto (I Cor 15,3-9). Aldo Bodrato (continua) |