DAL FILM AL LIBRO
Capitano tedesco salvava gli ebrei

Il commovente film Il pianista, di Roman Polanski, racconta una storia vera: nella Varsavia occupata e violentata, sul finire della guerra, un capitano dell’esercito tedesco scopre Wladyslaw Szpilman (protagonista del film), famoso musicista ebreo di radio Varsavia, sfuggito alla deportazione e nascosto in una soffitta. Il capitano gli chiede di suonare, è commosso dalla sua musica, lo aiuta a sopravvivere fino all’arrivo dei russi. Il capitano tedesco si chiama Wilm Hosenfeld, e morirà nel 1952 in un campo di prigionia sovietico. Il libro, scritto nel 1946 dallo stesso Szpilman, nell’edizione italiana contiene diciotto pagine di estratti dal diario del capitano Hosenfeld (pp. 209-226), tra il gennaio 1942 e l’agosto 1944, in cui egli registra senza mezzi termini le violenze naziste su oppositori politici interni e su popolazioni occupate, parla con precisione, già nell’aprile ’42, di ciò che avviene ad Auschwitz, non crede alla vittoria tedesca perché «l’ingiustizia alle lunghe non può prevalere» e perché «ora noi abbiamo sulla coscienza sanguinosi crimini a causa delle orribili ingiustizie commesse nell’assassinare i cittadini ebrei». Sente riferire questi fatti, a cui non partecipa direttamente, ma stenta a credervi. Se questo è vero, considera un disonore essere un ufficiale tedesco. Chiama pazzi, canaglie, bestie, i tedeschi che fanno queste cose. «Come siamo codardi a pensare innanzitutto a noi stessi e a permettere che ciò accada. Dovremmo essere puniti per questo. (...) Noi permettiamo che vengano commessi simili crimini, rendendocene complici». Attribuisce queste crudeltà all’allontanamento da Dio. Apprende e descrive con orrore i particolari delle deportazioni a Treblinka. È a conoscenza di parecchi ebrei nascosti in Varsavia. «Ho capito con assoluta certezza che avremmo perso la guerra perché ormai non aveva più senso» e ritiene che sia ormai «una guerra totalmente condannata dall’intera nazione». Riferisce tra virgolette la testimonianza di un ebreo sulle violenze subite (l’ha avuta personalmente?). È «un’onta che non potrà mai essere cancellata, è una maledizione dalla quale non ci libereremo mai. Non meritiamo alcuna pietà. Siamo tutti colpevoli. Provo vergogna ad andare in città. Qualsiasi polacco ha il diritto di sputarci addosso. (...) Ogni giorno che passa mi sento peggio». Si pone la stessa domanda che si ponevano gli ebrei nei lager: «Perché Dio non interviene?» e risponde che l’umanità è abbandonata al male perché ha abbracciato il male. «Quando i nazisti sono saliti al potere non abbiamo fatto nulla per fermarli. Abbiamo tradito i nostri ideali (...) e ora noi tutti dobbiamo accettarne le conseguenze”. Registra le disfatte militari e la demoralizzazione. Ma la popolazione tedesca, che egli crede in maggioranza ormai contraria al regime, è impossibilitata a ribellarsi, e l’esercito «è disposto a lasciarsi condurre alla morte». “Abbiamo usato metodi mostruosi (...) tutto è andato perduto». 

La personalità di Hosenfeld, il suo animo e la sua azione risultano illustrati nel libro meglio che nella breve parte finale del film. Il capitano insegna a Szpilman come meglio nascondersi, gli dice che si vergogna di essere tedesco. Szpilman lo definisce «l’unico essere umano con indosso l’uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto». 

Nell’appendice al libro (pp. 227-239), scritta di recente da Wolf Biermann, un intellettuale polacco, si apprende che Hosenfeld, che aveva già fatto la prima guerra mondiale, era nella vita civile un insegnante elementare generoso, gentile, tenero coi suoi alunni, affettuoso e materno con i bambini in difficoltà. In Polonia aveva già salvato un ragazzino dalla fucilazione, rischiando la propria vita; poi un giovane ebreo, Leon Warm, fuggito dal treno dei deportati, assumendolo sotto falso nome al proprio servizio. Aveva anche comperato scarpe e cibo per i bambini polacchi. All’inizio dell’occupazione tedesca, Hosenfeld, pregato dalla moglie di Stanislaw Cieciora, soldato polacco fatto prigioniero, lo aveva fatto liberare ed era diventato amico di questa famiglia, che frequentò, andando anche a messa insieme a loro. Salvò anche un prete loro parente, impegnato nella resistenza polacca, e così un loro conoscente, il signor Koschel. 

Dalla prigionia russa, dopo la guerra, Hosenfeld scrisse alla moglie un elenco di ebrei e di polacchi da lui salvati; il quarto nome era quello di Szpilman. Warm, andato in visita alla moglie di Hosenfeld, ebbe questo elenco e, tramite Szpilman, lo fece trasmettere dalla radio polacca. 

A Biermann, autore di questa appendice, Szpilman racconta di avere tentato, nel 1950, di aiutare Hosenfeld, quando seppe che si trovava prigioniero dei sovietici. Si umiliò ad elemosinare l’intervento di Jakob Berman, potente e odiato capo della polizia comunista polacca, al quale raccontò come il capitano tedesco aveva salvato la vita di moltissime persone. Berman effettivamente si attivò, ma gli dovette rispondere che i sovietici non volevano liberarlo perché il suo reparto aveva avuto a che fare con lo spionaggio. 

Nella prima edizione polacca del libro (peraltro subito tolto dalla circolazione), nel 1946, Szpilman si vide costretto a far passare il capitano Hosenfeld per austriaco, invece che tedesco, perché in quel momento in Polonia non era possibile rappresentare un ufficiale tedesco come buono e generoso!

Nel 1995 il nome di Wilm Hosenfeld non compariva ancora nel Viale dei Giusti, a Gerusalemme. Wolf Biermann si augurava che a piantarlo fosse Wladyslaw Szpilman. Il quale è morto nel 2001, all’età di novant’anni. Non sappiamo in questo momento se l’albero per Hosenfeld sia stato piantato.

Enrico Peyretti

• Wladislaw Szpilman, Il pianista, Baldini & Castoldi, Milano 1999, euro 11,40.


 
 
[ Indice] [ Sommario] [ Archivio] [ Pagina principale ]