RISORTO O VIVO / 2 |
Dall'annuncio al racconto |
«Se il Cristo non è risorto, vana è la nostra fede» (I Cor 15,14). Paolo è perentorio nell’affermare che la fede nella resurrezione del Crocefisso sta al centro della confessione cristiana ed è altrettanto chiaro nell’indicarci che tale fede nulla ha a che fare col ritorno materiale del Cristo alla vita terrena e alle sue condizioni mortali, empiricamente e storicamente verificabili (il foglio 297). La resurrezione, infatti, restituisce Gesù alla relazione con gli amici e con il mondo, non a seguito della rianimazione del suo cadavere, ma grazie alla compiuta manifestazione della sua unione al Padre e alla partecipazione della sua umanità alla pienezza della vita di Dio. Condizione necessaria quest’ultima affinché così possa accadere anche a noi (Rm 6,8-11). È dunque in ordine a tale preciso contenuto di fede che dobbiamo interrogare gli altri testi del Nuovo Testamento, in particolare i Vangeli, per capire cosa intendono comunicarci quando dicono la resurrezione di Gesù attraverso i racconti della visita alla tomba vuota e delle apparizioni. Testimoni di prima e di seconda mano Il passaggio dall’annuncio al racconto è abbastanza semplice e naturale, ma porta con sé notevoli problemi di linguaggio e di comunicazione e quindi di interpretazione. Innanzitutto il racconto si colloca con la confessione all’interno del discorso di fede, ma per la maggiore articolazione e per l’intrinseca ricerca di credibilità, rischia di essere colto come resoconto di fatti storici oggettivi. Il che va escluso per ogni passo evangelico e ancor più per quelli relativi alla resurrezione, nati per rendere testimonianza all’evento che tale fede ha fatto sorgere e che solo in un orizzonte di fede può essere accolto e capito. «La fede dei primi testimoni è il luogo e il mezzo della rivelazione pasquale del Risorto e del suo avvento originario nel mondo e nella storia» (H. Kessler, La resurrezione di Gesù Cristo, Queriniana, 1999, p. 227). Inoltre il racconto, come la confessione e l’annuncio, di fronte a un evento che per sua natura trascende la storia e cade al di là del potere espressivo del linguaggio, deve necessariamente usare il simbolo e la metafora. Anzi nasce solo grazie alla possibilità offerta dal linguaggio simbolico e metaforico di dire l’indicibile e di misurarsi, attraverso il molteplice variare delle narrazioni, con la molteplice ricchezza dei suoi significati nascosti (op. cit., pp. 255-261). Infine è ben chiaro ad ogni lettore, che affronti questi testi senza i paraocchi dell’apologetica e della catechistica corrente, che essi sono coscienti della propria natura confessante e del proprio carattere simbolico. Il che consente loro di fare giustizia di ogni ottusità positivista e di ogni razionalismo soprannaturalistico. «Infatti conoscono benissimo i rapporti tra credere e vedere, tra presenza e memoria, tra eventi interiori ed esteriori, rapporti in cui si decide la possibilità di dire la fede come reale esperienza e onesta testimonianza». Anzi, proprio perché sanno magnificamente mettere in scena come «l’apparire di Gesù risorto richiese di essere decifrato anche da coloro che avevano realizzato una compiuta partecipazione alla sua vicenda», ci aiutano a far nostra tale ricerca, a partecipare intellettualmente, emotivamente e praticamente ad essa. Il che è lo specifico del cammino e dell’accoglienza di fede (P. A. Sequeri, L’idea della fede, Glossa, 2002, pp. 96-97). Del resto basta un piccolo esempio per capire la natura edificante e interpretante, nient’affatto storicizzante, di questo passaggio dalla confessione testimoniale alla narrazione. Più volte Paolo fa presente ai suoi lettori che il Cristo risorto gli è apparso per chiamarlo alla conversione, ma in nessuna di queste va oltre l’annuncio dell’autorivelazione del Cristo e la specificazione dell’elezione apostolica (I Cor 15,8; Gal 1,13-14). È il più attendibile e diretto dei testimoni, ma non sente il bisogno di offrire il minimo spiraglio all’immaginazione sulle modalità esterne dell’evento. Ci penserà Luca a tradurre l’annuncio-confessione in racconto, una prima volta come cronaca, apparentemente oggettiva (At 9,3-9), e poi altre due volte come testimonianza appassionata, messa in bocca a Paolo (At 22,5-11; 26,12-18). Avremo allora la luce improvvisa ed abbagliante e la caduta, la voce di Gesù perseguitato che si rivela, la cecità, i compagni che odono ma non capiscono; il tutto in un crescendo che varia da racconto a racconto e nell’ultimo si fa addirittura esplicita menzione, in tipico linguaggio profetico, della missione ai pagani. Luca riferisce ciò che è realmente accaduto, sulla base di confidenze paoline, o Luca inventa il falso per abbindolare i lettori? Né una cosa, né l’altra. Semplicemente Luca annuncia, nello stile letterario scelto per la narrazione e la drammatizzazione degli atti e dei detti di Pietro e di Paolo, ciò che Paolo ha annunciato nelle sue lettere, vale a dire la vocazione dell’ultimo apostolo, legata ad un’esperienza di chiamata diretta da parte del Risorto. Luce corrusca, voce dall’alto, caduta, presenza esterrefatta della scorta sono veicoli di comunicazione, non oggetti di testimonianza, stimoli all’interpretazione, alla meditazione e al coinvolgimento personale. Sono poesia e arte, proprio come nel famoso quadro di Caravaggio, che di suo aggiunge e valorizza il cavallo. Sei racconti, sei versioni della stessa esperienza Possiamo fare lo stesso parallelo tra le Marie al sepolcro di Duccio, il Noli me tangere di Giotto, La resurrezione di Piero della Francesca, I due di Emmaus di Rembrandt e i racconti evangelici delle donne al sepolcro e delle apparizioni del Risorto? Certo. Infatti anche i testi di Marco e Matteo, di Luca e di Giovanni hanno una valenza artistica e una forte potenza poetica. Attraverso il vigore espressivo e la capacità di coinvolgento del racconto essi vogliono attualizzare e valorizzare al massimo l’esperienza originaria della fede, così da renderla, in qualche modo, ancora vivibile dai propri lettori. Ma diversamente dall’esempio ripreso dal narrare degli Atti, qui il rapporto tra testimone di prima e di seconda mano non è chiaro e univoco. Di mezzo ci stanno tradizioni orali e scritte difficili da ricostruire; ci sta l’ottica esistenziale, teologica e ecclesiale, non di uno, ma di almeno quattro narratori (sei con Marco 16,9-20 e con Giovanni 21). È così che chi vuole misurarsi con la testimonianza evangelica sulla resurrezione di Gesù si trova di fronte ad una molteplicità di racconti che, pur avendo tutti lo stesso oggetto, ci rappresentano luoghi, tempi, personaggi, azioni e dinamiche relazionali diverse. «I Vangeli ci riferiscono cinque apparizioni ufficiali, quelle cioè che concernono i discepoli riuniti. In Galilea secondo Matteo (e secondo l’annuncio di Marco). Al lago di Tiberiade secondo Giovanni 21. A Gerusalemme secondo Luca e secondo Giovanni (a due riprese). Si contano inoltre tre apparizioni private, cioè destinate a persone particolari: alle pie donne (Matteo), a Maria di Magdala (Giovanni) e ai discepoli di Emmaus (Luca)» (X. Léon-Dufour, Resurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline, 1973, p. 161). Di queste cinque nessuna è sovrapponibile all’altra, proprio come non sono sovrapponibili i quattro racconti dell’andata delle donne al sepolcro e non solo per particolari secondari, ma per l’insieme complessivo delle situazioni descritte e, nel caso delle apparizioni, per la diversa dislocazione del loro contemporaneo accadere (la Galilea per Marco e Matteo, Gerusalemme per Luca e Giovanni). Il che ci rende vigili su qualsivoglia pretesa di farne versioni di un unico evento storico, grazie ad esse ricostruibile, e ci suggerisce di considerarle interpretazioni narrative e teologiche di un’identica esperienza di fede, non altrimenti qualificabile. L’apocrifo dice di più Chi si trovasse in imbarazzo a considerare questo o quel particolare dei racconti canonici sul nostro tema come un ampliamento narrativo teologicamente motivato, può utilmente esercitarsi sulla rappresentazione che il vangelo apocrifo di Pietro fa dell’uscita di Cristo dal sepolcro, ben custodito da guardie. Sappiamo, infatti, che solo Matteo ci parla di sorveglianza posta dai capi Giudei a custodia della tomba e sappiamo che solo lui accenna ad un grande terremoto e a un angelo sceso come folgore dal cielo a rotolare la pietra e intontire le guardie, che precluderebbero alle donne l’accesso al cadavere. Ma sappiamo anche che ben si guarda dal presentare tutto ciò come una descrizione della resurrezione. Gesù, il crocefisso, non è lì, è risorto. E tutto l’apparato di segni portentosi utilizzato da Matteo serve per qualificare l’annuncio angelico, non per descrivere il fatto. Non così l’apocrifo, che evidentemente quanto più si allontana dall’evento tanto più sente il bisogno di certificarlo apologeticamente e di esprimerne anche visivamente la portata teologica. Ecco allora i legionari, che odono il frastuono dall’alto, vedono aprirsi i cieli, scendere due angeli, la pietra rotolarsene da sola lontano, gli angeli entrare e, dopo che s’è svegliato anche il centurione, uscire sostenendo un terzo personaggio ben più alto di loro, che pure con la testa toccano i cieli. Ecco una voce chiedere se ha predicato ai defunti e la croce, che segue il terzetto, rispondere: «Sì». Quali testimoni migliori, in ambiente latino, che militari romani non addormentati ma svegli? Quale immagini più efficaci per esaltare la preminenza del Risorto sugli angeli e per legare la sua morte in croce alla necessità della predicazione ai trapassati? Certo un apocrifo ha poca autorità. I testi canonici sono molto più sobri e si guardano bene dal descrivere la resurrezione. Ma se leggiamo Marco, e poi Matteo, Luca e Giovanni e poi ancora le aggiunte a Marco e Giovanni, ci accorgiamo che questa è la direzione: dall’annuncio puro e semplice della resurrezione alla sua esplicitazione in apparizioni sempre più concrete e complesse. Per dire l’indicibile? Per oggettivare l’inoggettivabile? Per materializzare il non materializzabile? Per storicizzare ciò che la storia non può contenere? No. Per confessare la propria fede e articolarla con linguaggio comprensibile a tutti in tutte le sue possibili sfaccettature a partire dalla constatazione che non c’è miglior modo per dire la ritrovata familiarità di Gesù risorto coi suoi che dichiarare che è apparso ad alcuni di essi scelti per la loro fede e che con loro ha mangiato e bevuto (At 10, 40-41). Aldo Bodrato |