Editoriale

Il rapporto con la sempre più numerosa immigrazione islamica pone interrogativi non solo alla società civile, ma anche alla chiesa. Anzi spesso accade che i problemi sociali e culturali che nascono da tali rapporti trovino il loro vertice conflittuale e la loro possibilità di soluzione proprio sul terreno religioso. Ecco perché credenti e non credenti sono stati molto colpiti dalle parole dedicate da monsignor Poletto al tema dell’immigrazione nell’omelia della messa dell’Epifania.

Ma cosa ha detto in sostanza il Cardinale il sei gennaio dal pulpito del duomo?

In primo luogo ha sottolineato la necessità da parte della chiesa torinese di prendere atto della crescente presenza sul territorio di stranieri di religioni diverse da quella cristiana. In secondo luogo ha focalizzato l’attenzione sull’immigrazione islamica, insistendo su due punti: che l’accoglienza deve portare all’evangelizzazione e alla catechesi e che il rispetto dell’identità altrui comporta la difesa della propria da ogni minaccia di cancellazione.

Crediamo sia per l’insistenza su questo punto, espresso con termini cari alla destra xenofoba, che la stampa ha colto venature integriste nell’intervento del Cardinale e che «Repubblica» ne ha parlato nella pagina che riferiva dell’attentato alla moschea di San Remo e degli schiaffi rifilati in diretta tv da Carlo Pelanda ad Adel Smith, intemperante presidente dell’Unione islamici italiani.

Parole e schiaffi non sono pietre, ma possono diventarlo, come subito si sono curati di dimostrare i neofascisti veronesi col loro tentativo di linciare, a «difesa dell’identità cristiana della nostra civiltà», lo schiaffeggiato, mentre lo schiaffeggiatore godeva della protezione della polizia.

Noi però non siamo colpiti solo dall’imprudente valorizzazione pastorale di un luogo comune dell’anti-islamismo leghista, ma anche dalla tesi che in definitiva l’accoglienza e l’aiuto debbano essere finalizzati alla conversione, attraverso «l’evangelizzazione e la catechesi».

Riteniamo infatti che porre la questione del rapporto religioso coi musulmani in termini di proselitismo sia fuorviante. Confrontarsi con loro sulla figura di Gesù il Cristo e far loro comprendere a fondo cosa davvero insegnano i vangeli su di lui, sulla sua morte e resurrezione, sulla sua divino-umanità crocefissa, sulla natura dialogica d’amore del Dio che in lui si manifesta, è bello e giusto. Anche perché essi hanno a loro volta molte cose da insegnarci su di lui e sul Dio di cui lo ritengono profeta. Ma pretendere di evangelizzarli, come se già non avessero ricevuto l’annuncio della “buona novella” e non la tenessero in onore, ci pare ingenuo, se non presuntuoso.

Certo un musulmano può diventare cristiano, come un cristiano musulmano. Ma non deve essere questo il fine dell’accoglienza, dell’incontro e del dialogo, che, come dice il cardinal A. Dulles, hanno già in sé il loro pieno senso umano e religioso che mire di proselitismo potrebbero solo falsare («Il Regno» 2-2002, p. 10). Si tratta della tensione alla convivenza pacifica, all’arricchimento culturale reciproco, alla crescita umana e spirituale. Tutto ciò cambierà noi e cambierà loro, ma già ha alla sua base molte cose in comune: il valore primario della pace e della vita, l’unicità e l’universalità di Dio, la Sua cura per l’uomo, il rispetto della Parola rivelata e scritta nella Bibbia, la venerazione di Cristo come profeta, l’onore reso a sua madre Maria, l’obbedienza alle leggi di Dio, l’attesa del giudizio finale, la preghiera, l’elemosina e il digiuno.

Lo ricorda il Vaticano II (Nostra aetate, cap. 3) e ce lo ricorda la loro tradizione religiosa, molto più tollerante e rispettosa della nostra, come bene dimostra il confronto tra ciò che gli scritti islamici dicono di Gesù e ciò che di Maometto dicono quelli cristiani.

Infine ci colpisce la scelta di parlare di difesa dell’identità e di necessità del proselitismo ecclesiastico nel giorno dell’Epifania, l’antico Natale, festa della manifestazione pubblica della signoria universale di Gesù Cristo, re-messia povero e inviso ai potenti. L’immagine dei Magi che giungono dall’Oriente alla grotta del Salvatore di tutte le genti, guidati da una stella del cielo e non da una parola umana, è qualcosa che trascende ogni appartenenza etnica e culturale, ogni credenza religiosa, ogni confessionalismo catechistico, che va al di là della stessa evangelizzazione, perché è essa stessa vangelo, “buona novella” su Dio, e, perbacco, persino sull’uomo.

Altre sarebbero allora le parole che sulla bellezza della comune ricerca e scoperta di Dio, sulla sua meravigliosa capacità di donarsi a tutti e di farsi da tutti conoscere nella loro infinita varietà di colore, di lingua e di cultura, si vorrebbero udire, durante questa festa, da un uomo di chiesa e di Spirito.

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