DAL NOSTRO CORRISPONDENTE |
Costarica senza esercito |
Maurizio Campisi, 40 anni, di Rivoli, vive da dieci anni in Costarica. Scrive su «Diario», «D di Repubblica» e «Narcomafie». È corrispondente dal Centro-america del quotidiano «La Juventud» di Montevideo. Ha pubblicato per Frilli Editori Centroamerica – Reportages (2002). In uscita per lo stesso editore: Sandino, il generale degli uomini liberi. Il rischio, quando si parla del Costarica, è di cadere nei soliti luoghi comuni. Il suo stato di paese senza esercito e di una tradizione pacifica in un’area che per lungo tempo è stata minata da guerre intestine, può portare a generalizzazioni pericolose. La più diffusa è quella di indicarlo come la «Svizzera del Centroamerica», che lo paragona ad una nazione che ha fatto del commercio di armi e dei traffici bellici la propria fortuna. Il Costarica, che ha abolito costituzionalmente l’esercito nel 1949, è un paese pacifico che ha costruito sull’assenza dell’istituzione militare la base della sua crescita sociale. È in questa maniera che ha creato un modello guida per l’America Latina, che è stato all’avanguardia per decenni e che solo ultimamente sta dimostrando un certo esaurimento. La globalizzazione, utile al Nord del mondo, anche qui sta producendo disastri: chiusura delle bananiere, coltivatori e lavoratori del caffè sul lastrico, turismo in perdita. Il modello, comunque, ce la fa ancora a tenere e per darsene conto basta dare un’occhiata oltre frontiera. In Nicaragua i bimbi dei cafeteros muoiono di fame, mentre qui i sussidi dello Stato riescono per il momento a far fronte all’emergenza. Lo sforzo più grande, ancora oggi, è quello di mantenere viva la «politica della pace» – o la cultura di pace, come preferiscono chiamarla qui – che negli anni Ottanta riuscì a porre fine ai conflitti che martoriavano il Centroamerica. Allora, gli accordi di Esquipulas II del 1987 valsero il premio Nobel per la Pace al presidente del Costarica, Oscar Árias, ma servirono soprattutto a mutare il corso di una situazione che sembrava irreversibile. Per alcuni anni sembrò che questo precedente potesse inaugurare una stagione nuova, di una smilitarizzazione progressiva che avrebbe potuto interessare tutti i paesi dell’area. Nei fatti, Panama venne smilitarizzata in seguito alla vicenda di Noriega, ma in quel caso si trattò della necessità di preservare il capitale statunitense da eventuali futuri colpi di testa di ex delfini con manie di grandezza. Oggi, è invece giunto il momento della disillusione. Le democrazie nate dalle macerie delle guerre civili hanno dato asilo ai persecutori, in nome di una riconciliazione nazionale che ha lasciato senza colpevoli tragedie e genocidi. Inoltre, le riforme neo-liberali hanno finito per affossare gli sforzi per organizzare una politica sociale di ampia portata. In Guatemala, Honduras e Nicaragua i governi spendono buona parte dei fondi per mantenere eserciti che al momento sono solo rappresentativi, togliendo risorse ai settori bisognosi della popolazione. La lezione non è ancora servita, nonostante ci siano i numeri a parlare chiaro. Mentre in Nicaragua l’analfabetismo interessa il 33% degli abitanti, ed in Guatemala e Honduras rasenta il 30%, in Costarica è solo del 4,2%. Lo stesso discorso vale per la speranza di vita: quasi settantasette anni in Costarica, il dato più alto in tutta l’America Latina, mentre nel resto della regione centroamericana sono dodici anni meno in media. Quello dei dati è una maniera sbrigativa, ma efficace di interpretare il modello inaugurato più di cinquanta anni fa da Pepe Figueres, coriaceo figlio di catalani emigrati in America in cerca di miglior fortuna. Nella pratica, per capirlo bene, è necessario addentrarsi nella realtà costaricense. La relazione con la pace comincia dall’educazione. Non è retorica quando i ticos – come si chiamano tra loro i costaricensi – ricordano che le scuole sono le loro caserme. L’aver portato l’istruzione anche negli angoli più remoti del paese, invece delle armi da fuoco o di plotoni di reclutamento, ha aperto una reale gamma di opportunità a generazioni altrimenti destinate allo sfruttamento e all’ignoranza. Nei villaggi, invece di incontrare l’unico simbolo della Coca Cola come avviene in altri paesi, il viaggiatore si imbatte nella scuola e nel posto di pronto soccorso. I giovani laureati in medicina e pedagogia hanno l’obbligo di servire per un anno in queste comunità lontane, in una sorta di servizio sociale obbligatorio che abitua l’individuo a percepire la sua importanza come elemento con un compito preciso nella società. Lo scopo è quello di evitare la violenza strutturale. Oggi, il tasso di omicidi è di 7 per 100.000 abitanti, sette volte in meno del Guatemala, il paese più violento della regione. Merito delle politiche sociali, ma anche di una presenza della polizia che a San José, la capitale, si è organizzata come quelle europee. A piedi, in bicicletta, in moto, a cavallo o in automobile i poliziotti fanno sentire la loro presenza in un’opera che non è solo di repressione, ma di prevenzione. Esistono ugualmente i quartieri a rischio, come Los Cuadros de Goicoechea o Lomas del Río, ma si tratta ormai di una realtà comune a tutta l’America Latina. È come arginare un fiume in piena, ed il timore è che anche il Costarica, nonostante tutto il lavoro, si possa trasformare un giorno in Caracas, Lima o Ciudad de México. Il merito maggiore però, in questo periodo di difficile tolleranza delle migrazioni, è quello di stare accogliendo la forte immigrazione dal Nicaragua. Il peso sociale è di rilievo. Si stima che almeno 400.000 nicaraguensi vivono oggi in Costarica – paese di 4 milioni di abitanti –, in una diaspora che sembra non aver fine, complice la crisi endemica che attanaglia il governo di Managua. Arrivano per le raccolte del caffè o della canna da zucchero, e spesso si fermano, andando ad ingrossare le periferie già disagiate di San José ed Alajuela, le due città più grandi. Anche per loro, scuole ed ospedali sono aperti, pur se nella maggior parte delle volte sono persone che non hanno i mezzi per poter pagare la previdenza. Si tratta di un notevole sforzo, soprattutto ora che le indicazioni del Fondo monetario vertono verso una privatizzazione dei servizi offerti dallo Stato, suggerimento che è stato accolto giocoforza da tutti gli altri paesi della regione con risultati tutt’altro che positivi. La violenza del più forte, dei centri internazionali del potere, si fa sentire anche così, debilitando le politiche sociali e facendo del mondo in via di sviluppo un far west senza regole. D’altronde, l’accoglienza è parte della tradizione civile e pacifista di questo paese. In diverse epoche il Costarica ha ospitato gli esuli di mezzo continente. Negli anni Settanta furono i cileni che scappavano da Pinochet, poi vennero gli argentini, i guatemaltechi, quindi i peruviani che fuggivano dalla follia di Sendero Luminoso. Oggi sono i nicaraguensi, senza opportunità a casa loro, e i colombiani a ingrossare le fila delle comunità straniere. Si è calcolato che almeno il 25% della popolazione residente in Costarica è straniera, un fatto che si può comprovare in qualsiasi riunione sociale e che ha arricchito la cultura locale. Lo stesso passato parla di una nazione che, lungo tutta la sua storia, ha combattuto una sola guerra, quella del 1856, e contro, guarda caso, un gruppo di avventurieri al soldo di uomini d’affari statunitensi, con l’armatore Vanderbilt in testa. Anche in quel caso, a guidare le armi fu l’ambizione della classe imprenditoriale degli Stati Uniti, alla ricerca di una rotta che permettesse un trasporto sicuro ai coloni che volevano raggiungere la costa ovest, attirati dal miraggio della corsa all’oro. Così, oggi le piazze e le vie della città, i monumenti del Costarica non ricordano generali o battaglie, ma i concetti su cui si regolano i principi della convivenza e del progresso: parco della Pace, piazza della Democrazia, piazza della Cultura, centro Franklyn Chang (dal nome dell’astronauta costaricense), la rotonda delle Garanzie Sociali ne sono alcuni esempi. A Ciudad Colón, ad una quindicina di chilometri dalla capitale sorge, nel verde della campagna, l’Università per la Pace, patrocinata dalle Nazioni Unite. È un altro tassello del mosaico pacifista, del tentativo di dare un senso a un’attitudine che non vuole e non può rimanere racchiusa a mera teoria. I docenti vengono da ogni parte del mondo ad insegnare come applicare la cultura della pace a studenti che poi torneranno nei loro paesi con il compito di prevenire guerre e violenze. L’attuale rettore è Martin Lees, che guida un corpo docenti formato da centroamericani, inglesi, svizzeri, venezuelani, cileni, islandesi, uruguayani, cambogiani, olandesi, peruviani, canadesi e statunitensi. Un blocco eterogeneo, chiamato ad insegnare materie dove spiccano l’educazione alla pace e la conoscenza ed il rispetto delle religioni. Così, non è poi eccezionale che in Costarica non esista un dibattito sulla pace, perché la pace è un dato di fatto, è la maniera in cui si educano i figli e in cui si guarda il futuro. In fondo, dà forza e speranza sapere di vivere nell’unico paese al mondo che il giorno dell’Indipendenza manda in piazza i suoi studenti invece che i soldati. Maurizio Campisi Il Costarica ha preso posizione a fianco di Bush, tanto che ora non so quanto valore abbia ormai l’articolo, che ho scritto prima dello scoppio della guerra. Questo è un paese che ha sottoscritto un proclama di neutralità e ora se ne viene con dichiarazioni del tipo: «Bush ha fatto benissimo, anche noi avremmo fatto la stessa cosa». |