SULLA DEMOCRAZIA |
Da Cuba, all’islam, a noi |
Ha fatto bene la sinistra (quasi tutta) a condannare Cuba per la prigione a 78 oppositori e addirittura la messa a morte di tre dirottatori di un battello per fuggire dall’isola. Il regime di Fidel Castro ha commesso una violazione molto grave dei diritti umani. La destra da molto tempo condanna non solo queste e precedenti violazioni, ma il regime come tale, perché rivoluzionario. E quindi tace del tutto sui risultati, in termini di diritti sociali e vitali (mortalità infantile, speranza di vita, alfabetizzazione, assistenza sanitaria), raggiunti dal regime rivoluzionario, che sono esemplari tra i paesi poveri, e gareggiano con quelli dei paesi ricchi. Cuba accusata Allora, giustizia o libertà? È un’alternativa che non va accettata. Ogni persona e ogni popolo hanno diritto uguale e possibilmente simultaneo all’una e all’altra. Oggi, gli Stati Uniti, per la sicurezza sacrificano qualcosa delle libertà. Dunque, bisogna ammettere che il popolo cubano, per liberarsi dalle atroci ingiustizie della dittatura di Batista, protetta dagli Usa, abbia dovuto, con la rivoluzione del ’59, scegliere la giustizia prima delle libertà, come condizione di una vera libertà dai bisogni primari indispensabili. Combattere gli egoismi, sradicare le strutture che proteggono gli egoismi dei forti a danno dei deboli, è azione di giustizia, che realizza libertà giuste, togliendo la libertà alle volpi di mangiare le galline. La giustizia che promuove la dignità umana promuove anche la libertà, mentre la libertà dei già liberi, se non è orientata alla giustizia che libera chi non lo è, non rispetta la dignità umana in chi è meno libero a causa degli «ostacoli di ordine economico e sociale» (Costituzione italiana, art. 3). Perciò, Cuba, dopo tanti anni di rivoluzione, avrebbe dovuto far fiorire libertà dalla giustizia, anche le libertà di pensiero, di critica, di opposizione politica, di emigrazione. Se non lo ha ancora fatto, è per qualche limite intrinseco a quella cultura rivoluzionaria. Anche la permanenza di un uomo solo al comando, Fidel Castro, da 44 anni, e di un partito unico, non è un segno di salute politica. Questa critica è più che legittima. Legittimi sono anche gli argomenti con cui il regime si difende: il duro embargo statunitense, l’assedio del pensiero unico e del sistema ultraliberista, i ripetuti tentativi di eversione e la dissidenza manovrata dal grosso vicino nordamericano. Sotto queste pressioni, il regime ha dovuto ammettere iniziative economiche private, si è aperto di più al turismo, gestito anche da società straniere, a costo di inquinamento culturale grave, come il fenomeno della prostituzione e del turismo sessuale. Come dice Giulio Girardi, a Cuba c’è «una dialettica interna tra due concezioni del socialismo: una umanista e popolare, una economicista e autoritaria». Se prevalesse la seconda, la rivoluzione fallirebbe. Ma anche nel primo caso, il cammino di Cuba contro la logica del capitale è tutto in dura salita. La sinistra umanitaria, intesa come l’ideale storico dell’uguaglianza in ciò che a ciascuno è dovuto, quando fa violenza si contraddice gravemente, offende il proprio senso. La destra, intesa come mantenimento del privilegio dei forti, quando fa violenza fa il suo mestiere. La violenza a sinistra è contraddizione, a destra è coerenza. Libertà di vincere Prendiamo questa vicenda cubana per una riflessione su democrazia e giustizia. Al pensiero liberista delle classi oggi al potere nei paesi democratici, la richiesta di giustizia appare arroganza, disordine, aggressione alla libertà creativa. L’art. 41 della Costituzione sembra di ispirazione sovietica!!! Il principio supremo è la democrazia, intesa come libertà individuali in concorrenza. Il risultato della competizione è senz’altro giustizia. La quale dunque non è misurata sul soddisfacimento dei diritti umani, a cominciare da quelli primari, fondamento di tutti gli altri, ma sulla regola formale del non impedire la gara, non mettere “lacci e lacciuoli” – cioè il primato della legge – a regolare l’uso della forza, a ridistribuire le risorse secondo i bisogni primari. Mettere limiti agli egoismi appare violenza! Ma poiché gli egoismi che tolgono risorse vitali sono violenza bella e buona, costoro chiamano violenza la limitazione della violenza! In questo pensiero dominante, denunciare le ingiustizie vincenti è offendere la democrazia, intesa come la libertà di vincere, anzitutto: di gareggiare senza altra regola che la forza di imporsi, di lasciare indietro senza scrupoli chi non riesce a correre. Ma la libertà dei vincenti è oppressione dei perdenti. Se non è di tutti, la libertà è abuso. Punire le ingiustizie stabilite, poi, è addirittura un crimine. Chi è forte, infatti, si sottrae in tutti i modi al giudizio della legge (interna o internazionale), accusa chi lo accusa, delegittima il giudice che lo giudica in base alle leggi, cambia le leggi per sciogliere ancor più l’egoismo dai vincoli del diritto, sostiene (nell’informazione, nella cultura, negli spettacoli) la cultura dell’affermazione di sé a scapito degli altri, contro il vincolo della socialità. La diseguaglianza offende E ritiene, quel pensiero, che è proprio questo che migliora il mondo. Chi non vince è incapace, deve accontentarsi degli avanzi, che peraltro, si promette, cadranno dalla tavola sempre più abbondanti. Resta da vedere se ciò si verifica davvero, e non pare proprio. Ma sicuramente si verifica l’offesa che sono le crescenti diseguaglianze interne alle società, così come tra le società veloci e quelle lente. Ora, la diseguaglianza è vissuta come ingiustizia, anche quando non offende i bisogni vitali, perché offende certamente il bisogno essenziale di tutti gli umani di sentire e vedere che abbiamo tutti un valore equivalente. Questa offesa brucia come la fame. (Si veda il bel libro di Ermanno Gorrieri, Parti uguali fra diseguali, Il Mulino 2002, che bacchetta anche la sinistra). Senza dire che l’insufficienza vitale colpisce un quinto dell’umanità – un miliardo e 200 milioni di persone – che deve tentare di vivere con meno di un euro – un euro! – al giorno, per tutte le sue necessità. Una condizione per noi inimmaginabile. Ma dobbiamo pensarla, per non fallire in umanità. Il numero sacralizzato Quel pensiero che oggi governa il mondo e l’Italia ritiene che se l’egoismo (gli affari propri, la ricerca di potere) ottiene il consenso (di chi accetta o subisce quella cultura) il risultato è buono, è il migliore, perché la regola della maggioranza è rispettata. Nel mondo, la maggioranza degli aventi diritto non è rispettata, ma ciò che importa è la maggioranza dei consensi di chi vota, ottenuti in qualunque modo. La democrazia numerica è il massimo valore umano sulla piazza attuale. Anche chi vuole offrire un’alternativa, spesso fa una politica consistente tutta nell’inseguire il consenso, e per questo si conforma alla mentalità dei più, illudendosi di poter fare poi il contrario di ciò che i più vogliono. Per lo più, basta il puro effetto-numero a legittimare il potere. Un presidente eletto dalla metà (dubbia) di meno della metà votante degli elettori, è considerato rappresentante del popolo statunitense, legittimato a decidere per tutti anche la guerra, cioè a mandare cittadini ad ammazzare e a morire. È davvero fondato un potere di pochi (oligarchia prevaricante) e non del popolo (democrazia)? Finisce che una democrazia numerica, senza il fine di valori di giustizia, cioè di realizzazione di dignità umana per tutti, è un idolo disumano, che divora e non salva gli esseri umani. Chi decide i valori? Va bene, ma chi decide i valori? Abbiamo imparato dai dolori della storia che, tra tutti i modi di prendere questa decisione, il meno rischioso e più correggibile, è la democrazia numerica, il principio di maggioranza. Abbiamo imparato che un’autorità carismatica, ereditaria, morale, religiosa, intellettuale, elitaria, pur potendo, in teoria e in qualche caso, realizzare fini giusti meglio della maggioranza popolare, non garantisce affatto, o garantisce meno del sentire popolare, da deviazioni autoritarie, violente, fanatiche, alla fine ingiuste per imporre il giusto. La democrazia numerica può correggere se stessa meglio dell’autorità benefica. L’ideale sarebbe il metodo del consenso, ma sui grandi numeri è troppo difficile. La grande scommessa della democrazia è la fiducia nella ragione e nella coscienza morale media dei popoli. I popoli possono ingannarsi, essere ingannati, ma non per sempre. Il prevalere del forte sul debole offende il sentimento umano più profondo e universale, se questo non è stato corrotto, sopito, deviato. Questa corruzione si verifica nell’idea del superiore diritto dei forti, e nella riduzione dei popoli a loro ammiratori e servitori obbedienti. L’umanità è fallibile e correggibile: può autocorreggersi, se i valori della sapienza che in essa è fiorita, sebbene sporadicamente, nei tempi e nelle civiltà, sono cercati, conosciuti, coltivati, protetti, stimati. Un popolo senza cultura sapienziale, nutrito di fatuità, è istupidito, esposto alla sopraffazione, è vittima designata, si consegna anche da solo, democraticamente, a padroni duri, suoi traditori. Si rilegga quel che scrive Bonhoeffer sulla stupidità umana, a dieci anni dall’avvento di Hitler. La maggioranza non è il tutto Proprio perché è fallibile, la maggioranza ha bisogno di almeno due correttivi: l’opposizione critica, sia durante il suo governo, sia come alternativa successiva, e la partecipazione di base. Il principio di opposizione – cioè libertà, ascolto, organizzazione, parola pubblica, ruolo istituzionale garantito alla minoranza – deve valere tanto quanto il principio di maggioranza. S’intende, senza violenza. Così come senza violenza deve esercitarsi il potere di governo conferito dalla maggioranza popolare. In questo caso, la violenza sta nella «dittatura della maggioranza», degenerazione democratica, che consiste nel decidere in modo unilaterale, nel prendere decisioni irreversibili, non più correggibili in seguito. La concezione più volte dichiarata del “prendere tutto” è tendenza totalitaria, perché la maggioranza non è il tutto. Questo è il limite essenziale del principio di maggioranza: lavora per il tutto, ma non è tutto. Se lavora per sé tradisce il principio democratico. Ma la principale opposizione difensiva e costruttiva non è quella istituzionale, ma quella culturale: la sapienza popolare, il pensiero libero e critico, il discorso sociale ampiamente circolante, non incanalato e costretto in facili imitazioni e ripetizioni di comodo, l’informazione veritiera e libera, non controllata ma controllora del potere. Di più, l’opposizione sempre necessaria è quella spirituale, la tensione inesausta al vero e al bene. Ancora Bonhoeffer: «La stupidità potrebbe essere superata soltanto con un atto di liberazione e non con un atto d’indottrinamento». È a questo livello che libertà e democrazia nascono e rinascono dal basso e dal centro del corpo sociale, nella partecipazione e comunicazione tra persone vive di mente, di cuore, di spirito. Democrazia è partecipazione Il principio di partecipazione, appunto, corregge e garantisce il principio di rappresentanza. Una democrazia rappresentativa che non sia anche partecipativa, in modo continuativo, diventa oligarchia, potere burocratico, esclude il popolo. L’idea di Aldo Capitini del “potere di tutti” è necessaria tanto quanto il suffragio universale. Se una democrazia non nasce continuamente, e non saltuariamente, dal basso, non è democrazia. Le strutture finora sperimentate (partiti, parlamenti), pur necessarie, non incarnano abbastanza questo principio complementare necessario. Partecipare stanca, ma obbedire o estraniarsi è vile. Che cosa è la verità? Una democrazia che dia sostanziale realizzazione alla dignità umana di tutti, e non sia puro formalismo, dunque, deve commisurarsi alla giustizia, perciò alla verità. Ma che cos’è la verità, si chiedeva Pilato, abbandonando Gesù, che sapeva innocente, in mano all’evidente maggioranza rumorosa davanti al pretorio. Chi stabilisce i valori e la verità? Nessuno ne ha il monopolio, nella società di tutti e di tutte le idee. Eppure, se non trova vie di valori e di verità, un popolo non vive in modo degno. E gli altri popoli della terra, senza giustizia, vivono oppressione e violenza strutturale. La democrazia non vive senza verità umana e diritto umano. Il dilemma tra formalismo e sostanzialismo è inevitabile. Dalle guerre di religione (verità armate) siamo usciti con il primo, il formalismo. Dalle violenze delle democrazie del privilegio non si uscirà senza qualche sostanza di verità e diritto. Perciò Giovanni XXIII poneva la verità, insieme a giustizia, libertà, amore, come pilastri della pace. Non una verità di fede, o teologica, o filosofica, ma questa verità sociale: ogni persona umana ha uguale valore. Se il valore delle persone è pensato diseguale, secondo forza, potere, mezzi, abilità, allora la regola e il risultato sicuro è la guerra, non la pace, l’insicurezza anche dei forti, l’assenza di società. È verità quella che rende buona e vivibile la vita, anziché spaventosa e impossibile. Democrazia e valori Nel confronto sempre più prossimo con la cultura islamica e con le forme politiche che essa realizza, il tema democrazia e valori è centrale. Le società musulmane sentono che si deve seguire dei princìpi più che delle opinioni. Essendo ancora società relativamente compatte religiosamente e culturalmente – o almeno avendo di sé questa immagine, nonostante le scosse della modernità – trovano nei princìpi sociali musulmani un valore che conta di più della volontà della maggioranza popolare. L’occidente pluralista e scettico si scandalizza. Vede in ciò qualcosa di violento. L’islam, al contrario, vede la violenza nel primato dell’opinione sulla verità. Il problema è serissimo, da sempre, e Platone lo ha messo a fuoco perfettamente nel dibattito coi sofisti. Tanto è vero che i sofisti di oggi accusano Platone di totalitarismo, e i platonici di oggi accusano di cinismo i sofisti. Le due concezioni, occidentale e islamica, devono ascoltarsi con serietà e disponibilità, disposte ciascuna a imparare davvero umilmente qualcosa dalla esperienza dell’altra. Un discorso da continuare Proviamo a formulare una provvisoria base di discorso da continuare. La democrazia non assicura giustizia e pace, ma assicura libertà formale. Senza democrazia e libertà, la giustizia e la pace non sono assicurate più di quanto lo siano dalla democrazia. Giustizia e pace sono lo scopo della democrazia e della libertà. La libertà di ciascuno non è fine a se stessa, ma il mezzo necessario, omogeneo al fine, per la liberazione dei non liberi, quindi per avvicinare la giustizia, quindi la pace. La pace è frutto della giustizia (Isaia 32,17; ma si veda il testo completo, dal v. 15, per capirne il pieno senso), la giustizia è frutto della libertà personale di tutti, purché orientata alla vita di tutti come alla propria. Nessuna autorità, nessuna forza, nessuna regola democratica rende sociale, cioè vivibile, la vita umana se non questo “amore” sociale: la libertà a servizio della giustizia, di ciò che è dovuto all’altro. Enrico Peyretti |