Editoriale

La legge 20 maggio 1970 detta «Statuto dei lavoratori» tutela la libertà e la dignità dei lavoratori e l’attività sindacale nei luoghi di lavoro (da qui il nome di Statuto dato alla legge, che la assimila alla Costituzione che garantisce i diritti dei cittadini all’interno dello Stato).

In particolare l’art. 18 migliora a favore del lavoratore la normativa prevista da una legge del 1966 che stabiliva che un licenziamento è illegittimo in tre casi:

1) se manca una giusta causa (gravissime violazioni del lavoratore, come furti, sabotaggio, ecc.)
2) giustificato motivo soggettivo (mancanze meno gravi, come prolungato e ingiustificato assenteismo, scarso rendimento, ecc.)
3) giustificato motivo oggettivo (cioè cause inerenti alla produzione come cessazione della lavorazione a cui era addetto il dipendente, ristrutturazioni, ecc.).

Il giudice, accertato che il licenziamento è illegittimo, lo annulla e ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro o, in alternativa, una indennità.

Qui però sorge il problema più grave: a chi spetta decidere la scelta tra la reintegrazione e l’indennità? La legge del ’66 non lo dice, ma è evidente l’importanza di questo punto: se a decidere è l’imprenditore, ciò rende il licenziamento illegittimo solo più costoso degli altri; se a decidere è il lavoratore la reintegrazione diventa una possibilità concreta e un deterrente effettivo contro i licenziamenti illegittimi.

L’articolo 18 dello «Statuto dei lavoratori» dà al problema una soluzione di compromesso: sceglie (probabilmente in base alle statistiche economiche di fine anni ’60) il numero di 15 lavoratori come discriminante tra piccole imprese, in cui la fiducia tra l’imprenditore e i suoi dipendenti è essenziale, e le altre in cui questo legame non è vitale, e concede solo agli impiegati di queste ultime la scelta tra il reintegro sul posto di lavoro o, in alternativa, un’indennità pari a 15 mensilità (fermo restando il diritto a un risarcimento dei danni subiti).

Nelle piccole imprese spetta invece al datore di lavoro decidere se reintegrare il lavoratore o pagare l’indennità e mantenere il licenziamento.

Ora proprio la discriminante dei 15 dipendenti prevista dall’art. 18 è attaccata sia da destra che da sinistra. Sia l’una che l’altra vogliono eliminare il doppio regime. La destra per estendere a tutte le imprese le regole delle piccole, lasciando sempre la scelta del reintegro all’imprenditore; una parte della sinistra per generalizzare a tutte le imprese le regole delle grandi, concedendo solo al lavoratore la scelta sul reintegro.

Crediamo ci siano buone ragioni sia per modificarlo in senso più favorevole ai lavoratori che per non cambiarlo. È evidente che l’estensione a tutti della protezione contro i licenziamenti illegittimi concessa ai lavoratori delle grandi imprese dell’art. 18 sarebbe un forte deterrente contro abusi e ingiustizie a danno di chi lavora nelle piccole imprese. 

D’altra parte, ed è questa la filosofia dello «Statuto dei lavoratori», non si può usare la stessa normativa per realtà molto diverse come le grandi e le piccole imprese.

La piccola impresa è un’organizzazione molto delicata e sempre a rischio (ogni anno ne sorgono e ne muoiono centinaia di migliaia). Obbligare l’imprenditore a lavorare a fianco a fianco con un dipendente in cui non ha nessuna fiducia, che rende difficili i rapporti all’interno del luogo di lavoro, o che non riesce a collaborare con gli altri dipendenti, mette a rischio la vita dell’impresa e quindi anche gli altri posti di lavoro.

Dal punto di vista emotivo è comprensibile la reazione di una parte della sinistra all’attacco del governo Berlusconi all’art. 18: tu vuoi eliminarlo e noi ne chiediamo l’estensione a tutte le imprese. 

Ma ad una più approfondita analisi politica si rivela la pericolosità della scelta referendaria. La sinistra ha come principi ideali la giustizia, l’uguaglianza, la difesa dei diritti dei lavoratori; inevitabilmente viene lacerata da uno scontro tra la difesa rigida dei suoi ideali e i necessari compromessi che l’agire in una realtà complessa come la nostra esige. Mentre la maggioranza di destra trova facilmente l’unità d’azione e convincenti argomenti per propagandare le sue posizioni, l’opposizione di centro-sinistra si presenta al referendum con tutte e tre le scelte possibili: alcuni propongono il sì, altri il no, altri ancora l’astensione (in realtà le posizioni sono anche di più, perché ci sono quelli che sostengono la libertà di voto, quelli che avrebbero voluto modificare l’articolo 18 per vanificare il referendum e così via, con un caleidoscopio di posizioni difficile anche solo da seguire). Ancora peggio, la divisione passa all’interno stesso dei partiti, dei sindacati e anche dei movimenti.

In queste condizioni è facile prevedere che lo scontro più forte non sarà tra la sinistra e la destra, ma all’interno della stessa sinistra, che il referendum sarà probabilmente perduto col rischio di travolgere l’intero articolo 18 e non solo e che lascerà uno strascico di recriminazioni, polemiche e accuse reciproche.

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