RISORTO O VIVO NEL RICORDO? / 6
Il Vangelo letto dal Vangelo

Prima di tirare le fila storiche e teologiche di questa ricerca, ci soffermiamo ancora su due passi biblici, composti da lettori dei vangeli, in tempi così vicini alla stesura degli stessi da essere quasi subito aggiunti ad essi e più tardi ad essi stabilmente legati dal Canone. Si tratta degli ultimi versetti di Marco (16,9-20) e dell’intero capitolo conclusivo di Giovanni, il ventunesimo.

L’interesse di questi testi non sta solo nel loro contenuto, ma anche nelle indicazioni che essi ci danno sul modo in cui venivano letti i racconti evangelici di resurrezione nei primi anni di vita della comunità cristiana e nell’opportunità che ci offrono di specificare la differenza tra racconti testimoniali e racconti catechetici.

Si tratta di una differenza che già abbiamo notato nell’esame della narrazione lucana e di quella giovannea, dove a racconti kerigmatici e testimoniali, esplicitamente tesi a presentare l’esperienza apostolica delle apparizioni con tutte le sue implicazioni teologiche (annuncio, riconoscimento, dono dello Spirito, invio in missione), si affiancano racconti catechetici e pedagogici il cui scopo è guidare i lettori all’accoglienza credente dell’evento testimoniato e suggerire percorsi di approfondimento pastorale e spirituale del mistero annunciato. Ora avremo modo di ritornarci con ulteriori precisazioni che ci permettono di individuare una terza tipologia: quella dell’uso dei racconti di apparizione per risolvere questioni teologiche ed ecclesiali, sorte nell’esperienza di vita della chiesa post-apostolica.

Missionari increduli ma efficaci

La semplice lettura della dozzina di versetti aggiunti in calce a Marco per colmare il vuoto lasciato dal suo silenzio sulle apparizioni del Risorto, ci fa subito capire che non si tratta di un testo scritto apposta per continuare questo vangelo o redatto a partire da una tradizione testimoniale autonoma, ma di una sintesi catechetica della predicazione pasquale, sintesi costruita sulla base di una diretta conoscenza, non dell’evento, ma delle pagine evangeliche ad esso dedicate da Luca e da Giovanni. Perciò, se vogliamo trovare in questo testo qualcosa che ci aiuti a progredire nel nostro cammino, dobbiamo puntare su quanto lo caratterizza, vale a dire sull’insistita denuncia dell’incredulità dei discepoli e sulla sottolineatura dell’efficacia della loro opera di missione.

Esso comincia con l’apparizione giovannea a Maria di Magdala, identificata con la posseduta di Luca (8,2), e prosegue con la notizia che la sua testimonianza non venne presa sul serio dai discepoli (16,9-11). Riprende il tema con i due di Emmaus, che liquida in una battuta («Apparve loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna»), ma che utilizza per ribadire che neanche loro furono creduti (16,12-13). Culmina con l’apparizione agli undici, «mentre stavano a mensa», e fa precedere, all’invio in missione, un duro rimprovero «per la loro incredulità e durezza di cuore» (16,14). Tale rimprovero manca in tutti gli altri passi evangelici e ci fa toccare con mano quanto fosse sentita, tra i primi cristiani, la difficoltà di credere la resurrezione.

Ciò che nell’annuncio evangelico risulta problematico, secondo questo proto-lettore dei vangeli, reso lui stesso evangelista per caso, non ha nulla a che fare con la verificabilità storica dell’evento annunciato o con la questione della natura e del destino fisico del corpo di Gesù, a cui non dedica la minima attenzione. Ciò che lo preoccupa è la difficoltà a far propria la convinzione che il Crocefisso, il messia sconfitto, è davvero il Signore e il Salvatore. Lo sottolinea anche un’ulteriore aggiunta al finale canonico di Marco, testimoniata da un antico manoscritto, che mettono, a questo punto, in bocca ai discepoli la seguente autodifesa: «Questo mondo d’iniquità e d’incredulità è sotto Satana e non permette a chi, (come noi), è ancora sotto il dominio degli spiriti impuri di comprendere la verità di Dio. Perciò rivela fin d’ora la tua giustizia» (cioè: realizza subito in pienezza l’ultima e definitiva rivelazione).

Sia come sia; fatto sta che, senza più precisare se i discepoli abbiano persistito nella loro incredulità o siano diventati credenti, Gesù li invia in missione, insistendo sull’universalità dell’evangelizzazione e precisando che l’azione di chi crede in lui sarà accompagnato da segni del suo potere di liberatori dal male (16,15-18). Quindi ascende in cielo, come in Luca, e al tempo stesso, come in Matteo, si fa compagno del loro operare (16,19-20). Notazione questa inserita non come promessa («Sono con voi per sempre», Mt 28, 20), ma come constatazione: «Operava insieme con loro». Il che ci dice che il testo non si colloca nella prospettiva evangelica di chi ipotizza di trovarsi agli inizi del cammino, ma in quella, tipica degli Atti, di chi sta ormai ben fisso nel pieno della missione e ha sugli inizi uno sguardo retrospettivo.

Per restituire l’onore a Pietro

Diversa è la situazione dell’epilogo di Giovanni. Esso, infatti, non si presenta come sintesi di testi già scritti, ma come ampliamento narrativo (midrash) di un passo lucano assai più breve, collocato non alla fine, ma all’inizio dell’avventura pubblica di Gesù (Lc 5,4-11). Passo che ha per oggetto la chiamata al discepolato del primo gruppo dei Dodici e in particolare di Pietro, pronto a buttarsi alle ginocchia di Gesù e unico chiamato ad essere «pescatore di uomini».

Il risultato dell’operazione narrativa e teologica è notevole, ma anche singolare. Più di un particolare ci segnala che, nella redazione giunta a noi, essa intende legittimarsi come autentico finale del vangelo di Giovanni. Ci informa che l’apparizione narrata è la terza della serie dopo la resurrezione (21,14; forse considerando l’apparizione alla Maddalena come una tappa interna al processo di resurrezione); richiama più di una volta l’accoppiata giovannea Pietro – discepolo amato; precisa che quest’ultimo è proprio quello che la sera dell’ultima cena, trovandosi accanto a Gesù, gli ha chiesto chi fosse il traditore (13,25 e 21,20). Al tempo stesso però, prendendo un testo di Luca per compiere la propria operazione midrashica, finalizzata alla soluzione di nuove questioni teologiche e pastorali, introduce nel vangelo di Giovanni un corpo estraneo.

Mai, ad esempio, Giovanni valorizza teologicamente il fatto che i discepoli e Pietro sono dei pescatori. Mai, in tutti i vangeli, i racconti di apparizione servono alla presentazione e alla soluzione di temi diversi da quelli legati alla comprensione diretta di questo mistero stesso o alla difficoltà della sua accoglienza. È davvero difficile pensare che Giovanni, dopo aver chiuso il vangelo come lo ha chiuso, possa decidere di presentarci i discepoli, già pieni di Spirito Santo, intenti a pescare in Galilea. Tanto meno è possibile immaginarlo mentre costruisce una tipica scena sinottica, saccheggiando Luca, per presentarci un Gesù assai diverso dal suo. Un Gesù che lascia il Padre per rassicurarsi sull’amore di Pietro e rassicurarlo sulla sua missione, nonché per informarlo dei modi della sua morte e liberarlo dalla gelosia nei confronti del «molto amato».

Evidentemente lo scrittore è un altro e questo scrittore, anche se può aver tenuto presenti tradizioni più antiche, non ha alcuna intenzione di raccontarci un racconto di resurrezione che, ponendosi sullo stesso piano degli altri, ci dica qualcosa di fondamentale sul Risorto. Il Risorto è lì per tutt’altro che per alimentare la fede nella sua resurrezione. Il modo in cui avviene il riconoscimento da parte del discepolo amato, in cui Pietro si affretta a raggiungerlo con goffo entusiasmo, il silenzio degli altri, che «già sanno bene che è il Signore» (21,12), ci dice chiaramente che questa non è una teofania, una rivelazione, ma una visita di cortesia, o meglio, pastorale.

Luca negli Atti suggerisce addirittura quaranta giorni di apparizioni per riqualificare teologicamente e cristologicamente ciò che i discepoli hanno imparato alla sequela del Gesù terreno (At 1,3). Qui, però, siamo al di fuori anche di questa prospettiva.

Per un verso il racconto ha, nella parte iniziale, lo scopo di offrirci con una immagine, la pesca miracolosa di lucana memoria, l’insegnamento ecclesiale che solo insieme a Gesù i cristiani possono compiere la loro missione di evangelizzatori delle genti. Per un altro, nella seconda parte, affronta e risolve, a favore di Pietro, ma senza sminuire l’«altro», la polarità e la complementarità costruita tra i due dal vangelo di Giovanni. Cosa per noi forse di non grande rilievo; ma evidentemente importante per la comunità giovannea, chiamata sempre più a interagire e dialogare con comunità formate alla scuola di altre tradizioni evangeliche.

In conclusione: cosa ci insegnano i primi lettori dei racconti evangelici di resurrezione, che, con la loro ripresa di questo tema in forma di sintesi o in forma di rilancio narrativo, sono diventati evangelisti essi stessi?

Testimonianza, incredulità e amore

Sull’evento della resurrezione e sulla condizione del Risorto, direi, nulla di nuovo. Sulla ricezione e sull’utilizzazione da parte dei primi cristiani dei relativi racconti evangelici, direi, qualcosa di assai interessante, anche se non molto, a confronto di quanto ci dicono gli Atti, le lettere di Paolo, degli altri apostoli e l’Apocalisse.

Da una parte lo Pseudo-Marco (16,19-20) ci dice che molto forte è sentito il bisogno di richiamarsi all’autorità dei vangeli come autorità testimoniale e che altrettanto forte è il bisogno di trovare risposta alla propria difficoltà di credere, enfatizzando la difficoltà dei testimoni originari stessi. E ancora ci dice che il successo della missione e della diffusione del vangelo è sentito come segno importante di conferma dell’incredibile evento testimoniato.

Dall’altra Giovanni 21 ci ricorda che è sempre possibile rivisitare spiritualmente il vangelo per leggere coi suoi occhi la realtà della nostra esistenza. E ci insegna che, in tale prospettiva, anche il tema della resurrezione può essere utilizzato con fecondità, se si tratta di rinnovare la fede nella presenza efficace di Gesù accanto ai suoi e rilanciare l’azione evangelizzatrice della chiesa.

Perché mai Gesù è ritornato in Galilea da Pietro e compagni, secondo Giovanni 21, se non per consentirgli di riabilitarsi con una triplice professione d’amore dal triplice tradimento e per richiamarlo alla coscienza che l’amore vivo è il miglior segno della fede nella presenza dell’amato vivente e quindi del Risorto? Se non per insegnargli e insegnarci che l’amore è il vero fondamento della sequela e dell’autorità pastorale (21,15-19)?

E infine, con quale autorità un tardo epigono può correggere o integrare un vangelo, se non con l’autorità di chi sa di vivere in un tempo tanto vicino all’evento cruciale da poter scrivere ancora con qualche credibilità «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?» (21,22)?

Questo tempo non è più il nostro. A noi non è più dato creare parole di vangelo. A noi è dato valorizzarne il lievito con la comprensione interpretante, affinché «la Scrittura cresca insieme ai suoi lettori» (Gregorio Magno).

Aldo Bodrato

(continua) 


 
 
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