ANNIVERSARI /1 |
Quel magico 26 luglio |
«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini; ed ha nominato Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato Sua Eccellenza il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio». Questo laconico comunicato, trasmesso dalla radio la sera del 25 luglio1943, ha cambiato non solo la Storia d’Italia, ma tutto il sistema di idee e di emozioni della grande maggioranza degli italiani. Una sublime ingenuità Ancora nelle ultime due settimane precedenti, i giornali ripetevano le solite roboanti parole d’ordine: «Vinceremo, costi quel che costi», «Torino tutta in linea», «Torino sabauda e fascista grida il suo deciso proposito di riscossa e di vittoria», «Ardenti manifestazioni al Re e al Duce», «Torino fortifica nell’odio verso il turpe nemico l’ansia e la volontà di vittoria». Le cronache dei bombardamenti (816 morti il 13 luglio) parlano di odio e di vendetta e terminano invariabilmente con un atto di «Fede nel certo radioso destino della Patria». E poi? È bastato lo storico comunicato in cui il Duce era declassato a Cavaliere, perché tutto cambiasse. Già di notte «un giovanotto sulla trentina, avendo appreso le notizie da Roma, provava un incontenibile bisogno di renderne partecipi i suoi simili. E così, lungo un tratto della via Venti Settembre, egli sostava qualche minuto sotto ciascuna casa gridando a squarciagola: “Il Re ha assunto il comando di tutte le Forze Armate; Badoglio è il nuovo Capo del Governo”. Ad un dato momento una finestra si aprì ed una voce mezza assonnata rispose: “L’avevo già sentito alla radio, ma mi fa piacere udirlo ripetere anche se mi si sveglia nel sonno più profondo”». «Uscirono dalle rimesse i primi tram alle quattro e mezzo e già apparvero ai passanti – assai più numerosi del consueto – in abito già perfettamente aderente all’eccezionalità della giornata. A biacca, a caratteri rudimentali, ma vigorosi e ben visibili, risaltavano le scritte: «Viva l’Italia! Viva il Re! Viva Badoglio!». Il fascio littorio, che risaltava sui fianchi dei tranvai a lato dello stemma della città, era stato cancellato pure con la biacca». L’intera giornata del 26 è stata un’immensa festa, tutti in strada, tutti fratelli, tutti felici, tutti traboccanti di speranza, tutti a ripetere lo stesso grido: «Viva il Re, Viva Badoglio». «Era istintivo proposito della moltitudine ripetere al maggior numero possibile di persone le notizie apprese nella notte sebbene queste fossero già a conoscenza di tutti: i veicoli più disparati si colmavano di passeggeri recanti scritti e bandiere e percorrevano le strade cittadine» («Gazzetta del Popolo», 27 luglio). E la guerra? I bombardamenti? Con santa ingenuità, con disarmante candore, si pensava che l’incubo fosse finito. Ed il 27 questa allegria incontenibile traspariva «nel sorriso con cui gli operai si sono recati, non che puntuali, in anticipo, sul posto del lavoro; nella festosità con cui si sono salutati, come per congratularsi dell’avvenuta restituzione d’un inestimabile dono; nell’alacrità giuliva delle nostre donne recantesi al mercato, nell’espressione serena e soddisfatta dei passanti, nella garrula vivacità dei bambini. La gentilezza delle commesse torinesi è proverbiale; ma ieri ogni primato in materia è stato battuto. La stessa cortesia si è riscontrata in ogni esercizio pubblico». Significativa la ritrosia a parlare del fascismo e di Mussolini: «Sono stati rimossi gli emblemi del littorio che ancora occhieggiavano alla sommità di qualche portone o scolpiti all’angolo di qualche edificio pubblico, sono state cancellate certe cubitali scritte che ingombravano ovunque lo spazio bianco dei muri; un ben noto busto troneggiante nel cortile di una scuola venne immediatamente sbalzato e sostituito con una bandiera tricolore» («La Stampa», 28 luglio). Si voleva stendere un velo d’oblio e spegnere ogni possibile focolaio d’odio. Ma se odio c’era, su tutti i sentimenti dominava un senso di allegria, di sollievo, di ingenua spensieratezza. Ma il Re, dopo avere impacchettato Mussolini sull’autoambulanza, non trovava di meglio che ripetere le retoriche sparate del Duce: «Nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento. Ogni italiano si inchini dinnanzi alle gravi ferite che hanno lacerato il sacro suolo della Patria. Sono oggi più che mai indissolubilmente unito a Voi dall’incrollabile fede nell’immortalità della Patria». E Badoglio, con un capolavoro di ipocrisia, aggiungeva: «La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a S.M. il Re Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti». Una criminale imbecillità Invano i cinque partiti antifascisti avevano fatto pubblicare («Stampa Sera», 26 e 27 luglio) un proclama in cui si parlava di libertà, si condannava la dittatura fascista e la guerra. Il Governo rispondeva col divieto delle riunioni superiori alle tre persone e con la messa al bando di qualsiasi partito politico. Veniva ripristinata la censura in un modo più ridicolo che odioso. Un articolo intitolato Chiarezza, interrotto da continui spazi bianchi, diceva “chiaramente” come Badoglio considerava la libertà di stampa («La Stampa», 30 luglio). Alcuni cortei inneggianti al Re venivano dispersi lasciando a terra molti morti. Certamente nei 45 giorni di Badoglio si doveva mostrare agli italiani che qualche cambiamento si era verificato. I celibi potevano di nuovo fare carriera. I bimbi tornavano bambini, cioè finalmente smettevano di scimmiottare da Balilla i soldati veri e tornavano ad avere il diritto di ridere e di piangere, rientrando «in un mondo di bimbi veri, con fierezza e forza d’animo sì, ma spontanei, guidati non da una volontà esteriore, ma dal loro sentimento» («La Stampa», 30 agosto). Inoltre risorgeva la “Famija Turineisa” che era stata soppressa dal fascismo. Ma il velleitario «la guerra continua» portava ad un tragico risultato. Agosto 1943, agosto di bombardamenti. I giornali non parlavano più di odio e di vendetta, ma si dilungavano in tragici particolari: «Triste è lo spettacolo che si offre al passante in via Cottolengo angolo via Ariosto: dell’infermeria delle monache non rimangono in piedi che le mura sbrecciate e sgretolate: attraverso le finestre, da cui pendono materassi rosi dal fuoco, vesti, pezzi d’imposte, s’intravede una paurosa fantasmagoria di pavimenti crollati, di cumuli di macerie, di tendoni laceri, di letti contorti e anneriti e sopra ad ogni cosa una spessa nube di fumo ondeggiante. Anche le cucine non hanno avuto sorte migliore. Gli ordigni esplosivi hanno schiantato il tetto, i successivi piani e sconvolto da cima a fondo i sotterranei: dalle feritoie all’altezza del marciapiede escono anche qui ondate di fumo. Cucine, mobili, accessori, tutto è scomparso nell’immane voragine» («La Stampa», 9 agosto). Mentre ci si riempie la bocca della solita retorica patriottarda, si nutre un totale disprezzo per gli italiani, massacrati, imbavagliati, disinformati. I partiti antifascisti vengono esclusi dal potere, che resta in mano ad un patetico gruppo di servili cortigiani e di generali vili e incapaci. E il tutto culminerà con la tragica farsa dell’8 settembre. Ma questa stupidità criminale si ritorcerà sul signor Vittorio Savoia e su suo figlio. Il patrimonio di consensi fortunosamente ottenuto verrà completamente dilapidato. Vittorio Emanuele ha soppresso la monarchia ben prima del referendum del 1946. Un garrulo bambino Tra i “garruli bambini” di cui sopra, c’era anche il sottoscritto. «Dario, Dario, il Duce non c’è più, il Re l’ha mandato a spasso, ora c’è il Maresciallo Badoglio». Questa la mia sveglia il 26 luglio 1943. Era mia zia, in quanto i miei genitori erano in quei giorni assenti. «Come? Come?» Fui preso dal panico. Fu come se mi avessero detto: «Il sole non c’è più». Da «figlio della Lupa», mi avevano insegnato a pregare per il Duce e la Vittoria ed a scuola, ogni mattina, la solita cerimonia: «Bambini, saluto al Duce!»; «A noi!», si doveva rispondere col braccio teso. La stessa mia zia, pochi giorni prima, inneggiava ancora al Duce come al Salvatore della Patria, ed alla Gloria Eterna dell’Italia Imperiale. Ora mi spiegava: «Vedi Dario, quanti disastri! Il Duce ci ha portato alla rovina, ma il Re e Badoglio ci salveranno». Come altri 40 milioni di italiani feci una conversione a U, e da piccolo fascista diventai un convinto antifascista. Mi procurai un gessetto e diedi inizio al seguente rito: scrissi alcune «M» (Mussolini) e vi feci poi una croce sopra. Non potendo abbattere i busti, mi dovevo accontentare. Poi scrissi alcune «B» (Badoglio) precedute da un «Viva». Mi recai nella piazza del paese. Era piena di uomini con baffi e cappello (era la divisa dei contadini), che si congratulavano per la notizia sorprendente ed entusiasmante. Anche loro erano diventati tutti antifascisti. Ero meravigliato e felice. Ma avevo anche appreso una preziosissima lezione. 1) Non bisogna fidarsi degli adulti, specialmente di quelli troppo sicuri di sé. 2) Non bisogna fidarsi di quello che dicono tutti. 3) Non bisogna fidarsi della radio e dei giornali. 4) Non bisogna fidarsi dei grandi uomini, dei capi che trascinano le folle. In conclusione ho incominciato a pensare con la mia testolina. In quel magico26 luglio. Dario Oitana |