NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI PADRE PELLEGRINO
Un vescovo tra secolarizzazione e rinnovamento

A cento anni dalla nascita di padre Pellegrino (Centallo, 25 aprile 1903) sono usciti a cura di Franco Bolgiani dal Mulino gli atti del convegno che si era tenuto nel 2001 all’Università di Torino: Una città e il suo vescovo. Torino negli anni dell’episcopato di Michele Pellegrino, con relazioni di Arnaldo Bagnasco, Francesco Traniello e Claudio Ciancio. Pubblichiamo per gentile concessione di quest’ultimo l’ultima parte della sua relazione, intitolata Padre Pellegrino: un grande vescovo tra secolarizzazione e rinnovamento, in cui il filosofo torinese tenta un bilancio dell’eredità di Pellegrino, sottolineando in che modo sia cambiato il contesto culturale e ecclesiale negli anni che ci separano dalla sua morte, avvenuta nel 1976.
 

[...] L’esperienza culturale degli anni successivi ha messo in discussione questa prospettiva continuistica [tra realtà terrestre e disegno di Dio, tra rivelazione naturale e rivelazione positiva], viziata forse da eccessivo ottimismo. Si deve riconoscere che le tensioni si presentano piuttosto come insuperabili. Ne consegue che, per rendere credibile il cristianesimo e per rendere produttivo il dialogo con i non credenti, non è forse più sufficiente introdurre nella prassi e nella visione del mondo dei cristiani quei correttivi che giustamente a Pellegrino sembravano necessari. Pensiamo ad esempio alle sue reiterate lamentele riguardo al fatto che «troppo pochi cristiani credono sul serio alla promozione dell’uomo». A 25 anni di distanza mi sembra che non sia più questo il dato più rilevante, perché al contrario è accaduto che l’interesse per la promozione dell’uomo non abbia acuito l’attenzione per il tema escatologico ma piuttosto l’abbia fatto perdere di vista. Pensiamo ancora al coraggioso auspicio che la Chiesa sia fatta di cristiani liberi, corresponsabili e critici e ai suoi giusti timori, negli ultimi anni, che fosse in corso una restrizione della libertà nella Chiesa (in specie per i teologi); e che d’altra parte in ciò si manifestasse una lontananza della gerarchia dalla sensibilità della gente. Anche qui si può cogliere in fondo un elemento di ottimismo che oggi mi sembra smentito, perché è diventato chiaro come una maggiore attenzione ai valori umanistici, benché assolutamente condivisibile, non avvicina alla fede più di quanto non avvicini all’indifferentismo, mentre una maggiore vicinanza alla gente la Chiesa negli ultimi tempi l’ha realizzata, ma forse proprio a scapito di un cristianesimo critico e corresponsabile.

Ottimismo smentito

E ancora una punta di ottimismo eccessivo si può leggere dietro alla sua lagnanza sulla controtestimonianza che i cristiani offrono in tema di ricchezza. Così nella conferenza del 1979 Essere Chiesa oggi Pellegrino diceva: «È coerente il cristiano che dice che quello che conta è la vita futura e poi in questa vita cerca di guadagnare più soldi che può e arricchirsi, magari facendo dei compromessi con la coscienza? Non basta chiamarsi cristiani. Meglio sarebbe non chiamarsi cristiani in quel caso. Ha detto qualcuno: “Non è che la gente, che quelli che non sono cristiani, ci rimproverino di essere cristiani; ci rimproverano di esserlo troppo poco”. Se fossimo più cristiani, forse sarebbero contenti di vederci cristiani!». Ora nell’attuale momento storico-culturale mi sembra ben difficile riscontrare un’attesa di cristianesimo autentico. È forse piuttosto un cristianesimo generico, edulcorato, moraleggiante, magari sincretistico, quello che sembra incontrare il maggior favore, quello che per lo più la società si attende.

In tutti questi casi si presenta la difficoltà della sintesi tra umano e divino, tra secolarizzazione e trascendenza, difficoltà a cui una maggiore doverosa attenzione sia al rispetto dei valori umani sia alla radicalità dell’Evangelo non sembrano poter porre rimedio. Tutto ciò nulla toglie alla grandezza e giustezza del tentativo di mediazione operato da Pellegrino, anche perché solo oggi si manifestano chiaramente certi esiti della secolarizzazione che in quegli anni era difficile vedere. Se allora sembrava a Pellegrino che l’alternativa fosse tra una secolarizzazione integrabile nel cristianesimo e un secolarismo ateo, ora al contrario la secolarizzazione sembra essere uscita da questa alternativa, pro o contro il cristianesimo, per svolgersi nel senso di una pura estraneità ad esso. Da un lato la diffusione di altre religioni e culture, dall’altro il venir meno di quelle ideologie forti che si ponevano in alternativa al cristianesimo ma ne ereditavano alcuni tratti essenziali, spingono verso un abbandono dell’orizzonte cristiano non solo religioso ma anche culturale, un abbandono che peraltro non riesce ancora compiutamente. Si potrebbe dire che oggi la secolarizzazione si trova in un’impasse: tende a fuoriuscire dall’orizzonte cristiano ma non riesce a farlo. In ogni caso il dialogo si fa più difficile, e non perché sia più polemico ma piuttosto perché c’è maggiore indifferenza. Anche se non rinuncia a tributare qualche riconoscimento ai cosiddetti valori cristiani, la cultura laica tenta altre vie.

Identità da recuperare

La risposta della Chiesa a questa situazione è inevitabilmente una ricerca di rafforzamento della propria identità per evitare di annegare nell’indifferenza o nell’equivalenza di tutte le posizioni. Ma questa identità, forse perché è più difficile da recuperare, si tende spesso a recuperarla proprio saltando quelle mediazioni che a Pellegrino parevano importanti. Farò soltanto qualche esempio. Il primo è la posizione rispetto alla scuola cattolica. Scriveva Pellegrino nel 1970: «Se la scuola statale, che convoglia la stragrande maggioranza di alunni necessitasse di un apporto più valido d’insegnanti capaci di fermentare l’opera educativa in senso cristiano, ci sarebbe da porsi seriamente il problema se non convenga, in una visuale schiettamente e unicamente pastorale, smobilitare in larga misura la scuola cattolica per lavorare là dove la messe attende in maggior numero gli operai e dove si possono forse attendere frutti più abbondanti». In ciò non è da vedere solo un calcolo opportunistico, ma un privilegio accordato, anche nell’ambito educativo, alla via della mediazione, al dialogo con la cultura laica rispetto a una posizione che privilegia il rafforzamento dell’identità visibile. Sappiamo come questa posizione di Pellegrino non sia in alcun modo presente nella gerarchia italiana.

Analogamente si può riscontrare oggi una minore sensibilità rispetto alle specifiche esigenze della giustizia rispetto a quelle della carità. Ne è una spia la Novo millennio ineunte, che legge i problemi della giustizia esclusivamente sotto il profilo della carità, anche qui con scarsa attenzione all’istanza della mediazione (la mediazione, in questo caso, tra fede e società operata dalla giustizia, a differenza della carità che istituisce un rapporto più immediato). E più in generale il carattere di massa che la forma della Chiesa va in molti casi assumendo è in contrasto con una cultura della mediazione, perché tende a stabilire un rapporto diretto dei vertici della Chiesa e delle istanze più propriamente religiose con la base dei fedeli e con le strutture sociali saltando quegli organismi laici nei quali più direttamente il mondo dei credenti incontra la realtà sociale e si confronta con le tendenze culturali dominanti.

La radicalità del male

Rispetto a questi tentativi di recupero di identità, mi sembra più adeguato quello che propone Pellegrino, quello che passa cioè per il radicalismo evangelico, un radicalismo tuttavia che in lui non si pone in tensione dialettica con il mondo, ma piuttosto lo accoglie per trasfigurarlo. Qui forse si può nascondere un elemento di insufficienza nella visione cristiana e pastorale di Pellegrino, insufficienza riguardo alla consapevolezza della potenza del male. Non che il tema non compaia nei suoi interventi, ma per lo più egli parla del male in termini di debolezza, di limiti dell’uomo, qualche volta in termini di egoismo o di edonismo. Ne parla anche giustamente in termini di oppressività delle strutture economiche e sociali, che sembrano però riformabili nella misura in cui le storture gli appaiono imputabili all’egoismo: «È chiaro che quando c’è la seria volontà di superare l’egoismo dei singoli e dei gruppi, i difetti delle strutture possono essere in parte neutralizzati», scriveva in una riflessione per la Quaresima del 1972. In questo si può vedere un eccesso di ottimismo, una certa sottovalutazione sia della pesantezza delle strutture sia soprattutto della radicalità del male, come sordità e ribellione all’appello di Cristo, che non nasce solo da insufficienze della Chiesa e da debolezza o egoismo umani, ma da una positiva resistenza che impedisce l’ascolto, il dialogo e l’accoglienza del messaggio, oltre che da un’oggettiva deriva anticristiana della cultura in tutti i suoi aspetti compresi quelli politici e sociali. Questo approfondimento della radicalità del male unito alla consapevolezza della nuova fase (più lontana dal cristianesimo) a cui è giunta la secolarizzazione esige probabilmente una definizione più dialettica dell’identità cristiana e del suo rapporto col mondo, una definizione nella quale, ad esempio, la connessione fra impegno sociale ed escatologia può essere fondata a partire dall’escatologia e non viceversa e nella quale la dialettica fra l’essere nel mondo e il non essere del mondo espliciti tutta la sua forza.

Ma questo è il nuovo compito profetico che attende i cristiani e c’è da augurarsi che siano capaci di eseguirlo con la stessa fedeltà agli uomini del loro tempo e con la stessa fedeltà al Vangelo con cui, nel suo tempo, lo eseguì Pellegrino.

Claudio Ciancio
 


 
 
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