FINANZIAMENTO ALLE PRIVATE
Alla scuola dei buoni

Il 2 settembre, mentre questo numero andava in composizione, la ministra Moratti firmava il decreto per l’elargizione del buono scuola nazionale a favore delle scuole private. Da allora non abbiamo saputo molto di più su questa iniziativa, se non per due aspetti rilevanti: il buono scuola nazionale è cumulabile con eventuali buoni regionali, ed è elargito indipentemente dal reddito di chi lo percepisce.

Il buono Moratti è per tutti, ricchi e poveri. Siamo o non siamo per l’uguaglianza? Tale Alessandro Musumeci spiega su «Repubblica» del 3 settembre: «Abbiamo fatto una scelta di semplicità: controllare i 740 uno per uno avrebbe significato perdere troppo tempo». Nello spirito di Forza Italia, la ricerca dell’equità sociale è solo una perdita di tempo. Ma questo Musumeci, benché dimostri palesemente di ignorare l’esistenza dell’Isee, non è un ignorante qualsiasi, è uno che deve anzi spendere molto del suo prezioso tempo solo per enunciare il suo titolo: direttore generale per il servizio Automazione e Innovazione tecnologica del ministero dell’Istruzione.

Una stima approssimata tentata da «Repubblica» fa ammontare il buono a 120-150 euro annui per famiglia. Insomma, la Moratti, a spese del contribuente, offre una cena di inizio anno scolastico alle famiglie che amano la scuola privata, le quali magari poi la ripagheranno con un pugno di voti. Se qualcuno dovesse spiegare il significato della parola “demagogia”, non troverebbe un esempio migliore.

Il buono scuola piemontese

Diverso è il caso del buono scuola piemontese, fortemente voluto e perseguito dall’assessore Leo, e tradotto in legge regionale nel giugno scorso con i voti del centro-destra (che fa il suo mestiere e deve pagare il conto dell’appoggio vaticano), della Margherita (che finalmente riesce a fare quello che la Dc non fece in cinquant’anni) e dei radicali (che così ora potranno celebrare in tranquilla coscienza il XX settembre e la laicità dello Stato).

L’iniziativa di Leo dichiara seriamente di perseguire un obiettivo di libertà ed equità sociale, e impegna una quota non irrilevante delle risorse regionali (18 milioni di euro annui). Merita quindi che siano affrontate con serietà le questioni legate al finanziamento indiretto alla scuola privata.

Ogni cittadino può scegliere in libertà di non avvalersi della scuola statale. Questa scelta può dipendere da vari motivi, che provo a elencare in ordine di rispettabilità crescente:

1) perché esistono scuole non statali che rendono più agevole il conseguimento del titolo di studio (le scuole dei tre anni in uno);

2) perché esistono scuole non statali la cui frequenza garantisce prestigio “Sociale” (appunto);

3) perché esistono scuole non statali che dichiarano di fornire un insegnamento conforme a una determinata prospettiva culturale e religiosa;

4) perché esistono scuole non statali che integrano l’insegnamento normale (identico a quello delle scuole statali) con una specifica formazione religiosa;

5) perché esistono scuole non statali che offrono (o almeno dichiarano di offrire) servizi più vantaggiosi in termini di orario, attrezzature, attività extradidattiche, impegno professionale dei docenti.

Ovviamente, tutte queste categorie di scuole richiedono, a compenso per le loro prestazioni, la retta. Con l’istituzione del buono scuola, parte di questa retta viene addossata alla collettività. Il problema sta tutto qua, nel decidere se ciò sia equo, cioè se sia equo che il cittadino, cui l’articolo 53 della Costituzione richiede di concorrere alle spese pubbliche – comprese soprattutto quelle necessarie all’istruzione – debba anche contribuire alle spese private di chi liberamente e più o meno rispettabilmente intende (riprendiamo l’elenco precedente):

1) sottrarre i suoi figli a un insegnamento serio pur di arrivare in qualsiasi modo al pezzo di carta;

2) assicurarsi che i suoi figli non si troveranno come compagni di scuola dei poveri immigrati o comunque gente di ceto inferiore;

3) precludere ai suoi figli il libero e plurale confronto delle idee, educandoli secondo una prospettiva di parte;

4) garantire ai suoi figli una formazione religiosa, risorsa positiva e importante, ma non classificabile sotto la categoria del “bene comune”;

5) fornire ai suoi figli prestazioni aggiuntive, oltre la normalità, anche a spese di coloro che mai potranno usufruirne.

Non è ragionevolmente possibile rispondere sì alla nostra domanda, specialmente se si considerano i punti meno “rispettabili” dell’elenco. Non casualmente, i sostenitori del finanziamento si soffermano volentieri sulle scuole professionali salesiane (la cui funzione sociale è innegabile) ma sorvolano sui diplomifici e sulle scuole “bene” per “gente bene”. Ma anche queste (soprattutto queste, come vedremo esaminando il regolamento di attuazione del buono scuola piemontese) avranno il sostegno del denaro pubblico.

Libertà scolastica e quattrini

Ecco allora che si preferisce ricorrere a richiami retorici alla “libertà scolastica”, alla Costituzione, e ad alcuni argomenti classici che cercheremo di smontare. È abbastanza ipocrita invocare la libertà quando di fatto si tratta semplicemente di quattrini. La libertà di insegnamento in Italia non è mai stata né è oggi in pericolo. I sostenitori del buono scuola non mancano mai (lo hanno fatto anche Ghigo e Leo) di richiamarsi alla Costituzione: articolo 30, articolo 31... non arrivano mai però al 33, e a quelle ben note cinque semplici chiarissime parole italiane: «senza oneri per lo Stato».

Primo argomento: «Io pago le tasse, poi pago la retta, quindi pago due volte, ho diritto al rimborso». Questo argomento rivela solo, in chi lo usa, l’ignoranza della elementare distinzione tra imposte e tasse. Anche se nel linguaggio comune tasse e imposte sono spesso usate come sinonimi, la differenza è sostanziale. La tassa si paga in quanto fruitori di un servizio (produco rifiuti, pago la tassa sui rifiuti). L’imposta si paga in quanto percettori di reddito, e serve a coprire i costi di quei beni comuni indivisibili (sicurezza, ambiente, istruzione) che appartengono a tutti, che fruiscano o no dei servizi che attuano quei beni. Chi scrive, ahimè, ha finito da molti anni di frequentare la scuola, ma non può certo lamentare «pago le tasse, ma non vado più a scuola, quindi pago per nulla, voglio il rimborso».

Secondo argomento: senza sostegno pubblico, solo i ricchi possono scegliere la scuola che preferiscono, che la libertà di scelta sia legata al reddito è un’iniquità sociale. I ricchi possono accedere a tante cose che i poveri non possono ottenere: per questo esiste un sistema tributario, per ridurre le sperequazioni di reddito almeno fino a garantire le esigenze unanimemente riconosciute come prioritarie. E tra queste, con tutto il rispetto, non c’è né la scuola confessionale né tantomeno il diplomificio.

I criteri di progressività del fisco (articolo 53 della Costituzione) si basano sul fatto che le mille lire, insignificanti per il ricco, possano essergli sottratte per essere date al povero, per il quale possono invece significare la sopravvivenza dalla fame. Le iniziative alla Leo-Moratti vanno esattamente nella direzione opposta: sottraggono risorse di tutti a tutti per riversarle su una minoranza già privilegiata (meno del 10% della popolazione scolastica) e, forse, consentire a qualcuno di entrare a far parte di questa minoranza.

Terzo argomento: la libertà di scelta, e ogni altro diritto, resterebbero enunciati vani se non si provvedesse, anche con denaro pubblico, a dare loro un supporto materiale. Niente affatto. Una volta garantito dalla collettività il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, ogni scelta individuale deve assumersi anche l’onere del suo costo. Altrimenti, in nome della libertà di stampa, chiunque voglia pubblicare un libro potrebbe chiedere il buono-stampa pagato dal contribuente, o, in nome della libertà di scelta, chi non intenda avvalersi della strada statale Torino-Milano rivendicherebbe il buono-autostrada, e così via.

Quarto argomento: per i cattolici, è un dovere di coscienza prodigarsi perché tutti, ricchi e poveri, possano ricevere un’istruzione conforme ai loro principi di fede. Sempre con tutto il rispetto, questo è un problema dei cattolici e, in generale, di ogni comunità religiosa. Se le scuole confessionali intendono esercitare la loro funzione nella libertà garantita dalla Costituzione e mai messa in dubbio, possono richiedere il sostegno delle comunità e delle istituzioni religiose a cui si ispirano o a cui appartengono. I cattolici ricchi saranno i primi, per poco che abbiano letto del Vangelo, a impegnarsi per condividere il loro “privilegio” con i cattolici poveri. Perché, ancora una volta, ricorrere al braccio secolare, quando esiste quella soluzione chiara, onesta, indipendente, legittima e rispettosa del bene comune che è l’autofinanziamento?

Alla firma della legge, l’assessore Leo aveva subito respinto con sdegno l’accusa tendenziosa di voler privilegiare le famiglie benestanti per indurle a iscrivere i figli a scuole non statali, sostenendo che i rimborsi sarebbero andati in primo luogo alle fasce di reddito più basse, e lasciando così intendere che la grandezza guida fosse il reddito familiare («Voce del Popolo», 22.6.2003). Ora possiamo vedere dal regolamento di attuazione che le cose non stanno proprio così: il parametro guida non è il reddito familiare, ma il rapporto tra spese scolastiche e reddito familiare. Date tre famiglie di pari reddito e pari composizione, con un figlio in scuola statale, in scuola privata a bassa retta e in scuola privata “d’élite”, le loro posizioni in graduatoria saranno esattamente in ordine inverso, alla faccia della sbandierata equità sociale. Inoltre esiste una franchigia per cui la famiglia che non spende per la scuola almeno il 2% del suo reddito non riceve nulla. La franchigia, bontà di Leo, non esiste per una famiglia di tre persone e reddito imponibile inferiore a quindicimila euro: la tipica famiglia, come è noto, che ogni mattina fa condurre la bimba dall’autista all’Adoration...

Gianfranco Accattino


 
 
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