RISORTO O VIVO NEL RICORDO? /8
Credere nella resurrezione del Crocefisso

L’intera letteratura neotestamentaria pone al centro della fede cristiana la proclamazione che Gesù di Nazaret, colui che è salito dalla Galilea a Gerusalemme predicando il regno di Dio e beneficando molti, è stato crocefisso dai capi dei Giudei e dei Romani, ma non giace tra i morti, bensì è stato glorificato e/o resuscitato da Dio e elevato al cielo come Messia e Giudice escatologico.

Il che rende evidente che «la trasformazione della morte in vita» e «il capovolgimento di valori contenuto nell’annuncio della glorificazione divina dell’umanamente disprezzato e reietto» possono solo essere oggetto di rivelazione e di riflessione credente, non di indagine e di verifica storica (K. Barth, Epistola ai Romani, Milano 1962, pp. 182-85). Infatti si riferiscono a un evento che non si colloca tra gli altri eventi storici nel quadro delle realtà fattuali che costituiscono e chiudono il mondo empirico nel proprio cerchio di morte. La resurrezione del Crocefisso sboccia o irrompe nel mondo come apertura a un’ulteriorità o trascendenza che, mentre indica all’uomo i suoi limiti, anche gli presenta la possibilità di superarli mediante la fede.

Fides quaerens intellectum

Diventa a questo punto urgente chiedersi quale sia il corretto rapporto che la teologia deve avere con la storia, come scienza umana, e con ogni altro umano sapere razionalmente e criticamente costituito. Credere non significa accogliere a scatola chiusa una testimonianza rivelatrice, gettando via la chiave interpretativa della ragione per non essere turbati dai suoi dubbi e dalle sue domande. Credere significa accettare di avventurarsi in un percorso etico e intellettuale, offertoci dall’Altro (il Santo).

Se è vero infatti che «la resurrezione di Gesù si sottrae alla storia immanente in questo mondo e non è più dominio dello storico», è vero anche che «la fede pasquale dei discepoli, conseguenza della loro specifica esperienza del Signore risorto, è un dato storicamente indagabile» e costituisce la base per un dibattito critico sui reali contorni pratici e teorici del credo dei primi discepoli e delle prime comunità cristiane (G. Segalla, La terza ricerca del Gesù storico, in R. Gibellini, Prospettive teologiche per il XXI secolo, Brescia 2003, p. 240).

Ma qui non si ferma l’interrogazione della fede. Di qui essa parte per chiarire, una volta individuate le radici storiche della propria tradizione religiosa, il valore degli insegnamenti da essa ricevuti, il significato che essi hanno avuto e hanno per il credente, le relazioni che li uniscono e ne fanno non un disordinato insieme di suggestioni, ma una coerente e costruttiva proposta di vita. L’uso che della ragione fa la fides quaerens intellectum non si esaurisce, infatti, nello sforzo di tenere aperto il confronto con la filosofia e con le scienze, ma si esalta nell’attenzione critica che essa rivolge a se stessa per meglio comprendersi e radicarsi in chi professandola se ne fa carico.

Una fede criticamente avvertita non è una fede scientificamente e storicamente provata, ma una fede che sa dare ragione di sé nell’ambito della ricerca di senso e di valori della vita.

Il Gesù storico e non il Gesù degli storici è oggetto della fede. Ma al Gesù storico anche la fede ha oggi accesso solo attraverso il Gesù degli storici. Essi non possono dirci se Gesù era «Figlio di Dio», «il Figlio dell’uomo» o anche solo il Messia (Cristo); ci offrono, però, ragionevoli prove che si è presentato come inviato di Dio e annunciatore del Suo regno, che è stato accolto da molti come profeta e probabile Messia, ed è stato rifiutato dalle autorità del Tempio e consegnato ai Romani perché lo uccidessero come sobillatore.

Lo storico è costretto a registrare il fallimento terreno della missione di Gesù, proprio perché è costretto a fermarsi alla sua morte ignominiosa, ma al tempo stesso deve riconoscere che questo indice storico di fallimento, in un primo tempo fatto proprio anche dai seguaci del Nazareno, presto si traduce per essi in segno di vittoria, sorretto dalla convinzione di fede, pubblicamente dichiarata e resa storicamente operativa, che Gesù, respinto dai capi di Israele e crocefisso dall’autorità romana, è stato accolto da Dio. Dio stesso ha rovesciato, per essi, il giudizio degli uomini sovrapponendo alla loro lettura mondana e conservatrice della storia la sua lettura escatologica.

La pietra scartata è diventata testata d’angolo

La storia cede il passo, non senza aver segnalato la singolarità del passaggio improvviso dei discepoli di Gesù dallo scoraggiamento all’entusiasmo e la loro comune attestazione che ciò non è frutto di un lento processo di riflessione, ma di un evento inatteso che proviene da Dio e che di conseguenza appartiene all’esperienza di fede e alla sua rielaborazione teologica (G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, pp. 525 e ss.).

È la prima questione teologica di rilievo che la sequela e il discepolato di Gesù deve affrontare. Anche chi si pone nell’ottica di coloro che vedono nel Nazareno un grande profeta, un rabbi buono e pieno di saggezza, non può non sentire la sua morte come un’ingiustizia che invoca riparazione agli occhi degli uomini e di Dio. Tanto più chi lo ha accolto e seguito come Messia del Regno. Non è la morte in sé di Gesù, ma il modo di questa morte, pubblica, crudele, carica di rifiuto e di disprezzo, a costituire problema e a trasformarla insieme in fallimento e in questione teologica cruciale. Ne va dell’uomo, ma ne va soprattutto di Dio, se Dio è un Dio «giusto e misericordioso».

Ecco perché il Nuovo Testamento riprende e rilancia il versetto 22 del salmo 118: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo»: perché bene si presta al radicamento biblico e alla esplicitazione del significato storico e teologico che la vicenda di Gesù ha per la fede. Non la spiega, la enuncia e la enuncia insieme a due altre metafore teologiche: quella della glorificazione del Cristo umiliato e del suo innalzamento a Dio, tipica delle professioni cristologiche delle prime comunità, e quella delle apparizioni del Crocefisso risorto, caratteristica dei vangeli.

Perché il primo di questi due schemi abbia alla fine ceduto il passo al secondo, diventandone addirittura un’appendice nella forma lucana dell’ascensione, è difficile da stabilire. Ci basti tenere presente che insieme alla diversa accentuazione del tema della resurrezione, non più che evocato nell’uno, centrale invece per l’altro, “entrambi gli schemi intendono dire che Gesù non è rimasto in potere della morte, ma è vivo presso Dio” e lo è a seguito di un processo kenotico, che ha visto la sua storica umiliazione trasformata in escatologica esaltazione e in nascita a vita nuova, a seguito di un atto teofanico compiuto da Dio e da Lui rivelato a testimoni eletti all’apostolato (X. Léon-Dufour, Resurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Milano 1973, pp. 71-105).

Identità del Crocefisso col Risorto

Non c’è chi non lo vede. Se la confessione «Gesù è il Cristo» si basa sull’esperienza di fede che la croce non è solo espressione dell’umano rifiuto del messaggio e della persona del Nazareno, ma è anche luogo teologico della rivelazione della potenza salvifica di Dio, allora la continuità, anzi l’identità, del Crocefisso e del Risorto deve essere riaffermata e garantita.

Proprio questo intendono dire i racconti della tomba vuota e delle apparizioni del Risorto. I vangeli, quando ribadiscono che il corpo del Crocefisso non giace morto nel sepolcro, che il Risorto ha mostrato ai discepoli le sue piaghe, hanno di mira la realtà teologica non quella storica dell’evento resurrezione. Dicono che il Risorto non è altri dal Crocefisso, perché proprio colui che ha vissuto la kenosi è esaltato e posto al di sopra di ogni potere terreno e celeste.

È vero che il linguaggio teologico dei testi d’elevazione può dire tutto ciò senza ricorrere all’immagine del corpo risorto: «...Pur essendo di natura divina, / ... umiliò se stesso, / facendosi obbediente fino alla morte / e alla morte di croce. / Per questo Dio l’ha esaltato...» (Fl 2,6-11; Rm 10,5-8; Tm 3,16; I Pt 3,18-22). Ma è vero anche che i loro cenni espliciti alla morte umiliante e alla vittoria su di essa conseguita, non chiudono, bensì aprono la via alla dimensione spirituale e corporea, anche se non terrena, del ritorno in vita del Cristo. Tema caro ai vangeli e a Paolo, che lo collega, come vedremo, all’attesa della resurrezione dei morti. Ma tema caro anche a molti credenti di oggi, che pur riconoscendo la possibilità di interpretazioni diverse, sentono che, quando parla di redenzione, il cristianesimo si riferisce alla salvezza integrale dell’uomo. Una salvezza che lo riguarda sia come identità fisico-psichica, storicamente segnata, sia come realtà sociale e naturale.

La continuità e identità della persona nella resurrezione, infatti, non è garantita né dall’immortalità dell’anima, né dalla rianimazione corporea del cadavere, «bensì soltanto dalla fedeltà dell’amore di Dio in Cristo verso la sua creatura, fedeltà che nel momento della morte non la lascia cadere nell’abisso del nulla, ma la sostiene e la accoglie nella dimensione universale, eterna e onnipresente della sua vita ... la sana e la porta a compimento in sé stessa e con tutte le sue relazioni con il prossimo e col creato» (H. Kessler, La resurrezione di Gesù, Brescia 1999, p. 446).

Questo significa trasformare la fede nel Risorto in annuncio di nuova creazione o, meglio, di ricreazione apocalittica dell’universo così da renderlo capace di dinamiche di relazione pacifiche più che naturali? Significa accanirsi razionalmente contro ogni pretesa di trovare basi storiche ai racconti di resurrezione, per meglio abbandonarsi all’utopizzazione della fede?

Forse. Ma è pensabile una salvezza dalla morte e dal male, senza ipotizzare il superamento della condizione di morte e sofferenza intrinseche a questa realtà? È possibile invitare qualcuno a operare delle scelte radicali contro i poteri che dominano la storia del nostro mondo, senza proporgli di pensare il suo futuro in un orizzonte orientato e aperto dalla metafora della resurrezione? Si regge tale metafora senza la compagnia del simbolo di fede di un Dio creatore e ri-creatore?

C’è di che dubitarne se fin dal V secolo dell’evo antico un lontano discepolo di Isaia, per confortare i suoi dalla delusione dell’inglorioso rimpatrio da Babilonia, sente la necessità di rilanciare le promesse escatologiche del maestro sul rinnovamento della creazione, «il lupo e l’agnello pascoleranno insieme», «il bambino giocherà col serpente» (Is 11,6-9), proiettandole apocalitticamente verso «cieli e terre nuove» (Is 65,17-25). Se, due secoli prima delle origini cristiane, una madre ritiene di dover esortare i figli a non piegarsi alle prepotenze del civilizzatore di turno con queste parole: «Senza dubbio il creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi stessi» (2 Mac 7,23).

Aldo Bodrato


 
 
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