Editoriale

 

L’ultimo documento Ratzinger su (contro) le unioni omosessuali è inquietante anche se non presenta niente di nuovo sotto il sole, come si dice nell’introduzione stessa: il documento è una sorta di centone di citazioni prevedibili.

Alcune argomentazioni sono tratte dalla Sacra Scrittura (i soliti passi paolini contro l’omosessualità) e dalla Tradizione cattolica (§ 4), altre dalla «retta ragione» (§ 2 e 6) e addirittura dall’«esperienza» (di chi? § 7 sulle adozioni). La chiesa si pone dunque come custode del diritto naturale. Per questo le argomentazioni proposte dovrebbero interessare non solo i credenti. In realtà il testo è chiaramente indirizzato ai politici cattolici perché neghino ogni appoggio a iniziative che vadano verso la legittimazione giuridica delle unioni gay, e se già esistenti perché insistano a diminuirne gli effetti. Ora, si suppone che questi politici debbano rappresentare anzitutto gli elettori, prima che il magistero...

Ma ci si domanda che cosa giustifichi questo accanimento contro qualcosa che proprio in questi anni è venuto maturando e che qui viene ritenuto capace di causare in futuro «l’oscuramento della percezione di alcuni valori morali fondamentali e la svalutazione dell’istituzione matrimoniale» (§ 6) .

Eppure tale svalutazione – lo potrebbe testimoniare qualsiasi parroco – è ben evidente ormai anche in Italia dove la legislazione non ha ancora previsto alcuna forma di regolazione. Dunque l’equazione sfascio del matrimonio = colpa dei gay pare debole. Se così è, perché piuttosto non riflettere seriamente su questa crisi del matrimonio?

Si poteva pensare che il punto centrale fosse di evitare – e da questo punto di vista ci potrebbero essere anche delle buone ragioni – una sovrapposizione linguistica e soprattutto concettuale tra il matrimonio, da considerarsi esclusivamente tra persone di sesso diverso, e tali unioni, ma il documento è categorico: queste ultime non sono suscettibili di alcuna regolamentazione, anche se non pretendessero lo statuto del matrimonio. Inutile ricordare che il matrimonio – assente come rito specifico fino all’alto medioevo – ha sempre seguito l’andamento delle strutture civili.

Si resta rattristati in particolare dall’incapacità del documento di leggere in una vita di coppia tra due persone dello stesso sesso il minimo valore positivo. Esemplificando (i corsivi sono nostri): «nelle unioni omosessuali sono del tutto assenti quegli elementi biologici [e fin qui, nulla da obiettare] e antropologici del matrimonio e della famiglia che potrebbero fondare ragionevolmente il riconoscimento legale»; «è ... del tutto assente la dimensione coniugale»; e infine «le unioni omosessuali non svolgono neppure in senso analogico remoto i compiti per i quali il matrimonio e la famiglia meritano un riconoscimento specifico e qualificato». Neppure in senso analogico. Remoto. Questa sarebbe la chiesa esperta di umanità? Noi conosciamo un’altra umanità.

Alla base del documento sta ovviamente la distinzione tra «orientamento» omosessuale, non condannabile di per sé, e «atti», che «in nessun modo possono essere approvati». Anche il più testardo bacchettone capisce che difficilmente si può pretendere che un essere umano riesca ad amare un altro essere umano solo affettivamente, prescindendo da una naturale fusione dei corpi. Dunque chiedere di vivere castamente il proprio orientamento sessuale, equivale a esigere dagli omosessuali gradi di “virtù eroiche” che neppure i più castigati eterosessuali sembrano possedere. Pertanto sarebbe perfino più logico – in questa logica – esecrare tanto gli «atti» quanto gli «orientamenti». Sembra quasi che la chiesa con questo pronunciamento, preso atto che il problema sussiste, per non inimicarsi un’opinione pubblica sempre più aperta e tollerante, abbia preferito salvare capra e cavoli: omosessualità sì... purché ci siano solo carezze. È significativo della odierna sensibilità che il paginone di lettere di «Avvenire» del 6 agosto fosse quasi interamente occupato da interventi critici dei lettori nei confronti del documento.

E invece viene ribadito che uomini e donne omosessuali «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza». Ha commentato bene Mina sulla «Stampa»: «Proporrei, innanzitutto, di rifiutare l’offerta di compassione che è l’ultimo bisogno di un essere umano, uomo o donna, che prova amore vuoi omosessuale, vuoi eterosessuale, vuoi asessuale ... Il rispetto è un concetto universale, che non prevede limiti e informa la morale e la giustizia. Dovrebbe semplicemente garantire l’uguaglianza dei diritti. Garantire il diritto, e scusate il luogo comune, anche del più disumano dei delinquenti ... Il rispetto, come il diritto, è dovuto, non può essere una gentile concessione ... Passiamo alla delicatezza ... Dallo Zingarelli: “gentilezza di sentimenti e di maniere”, ma ancora “discrezione”, “riguardo”, “tatto”. Valori della interazione umana, non burocratici. Non si può essere delicati e discriminatori, delicati e invadenti, delicati e sovrastanti».

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L’altra notizia di mezz’estate che ci ha turbati è l’inquadramento - previo passaggio di concorso – degli insegnanti di religione cattolica (Irc) tra gli insegnanti di ruolo. In genere questa notizia è stata salutata dalla stampa cattolica come il tanto sospirato riconoscimento dell’importanza che la cultura religiosa ha nel panorama scolastico e culturale. A noi pare vero il contrario. Pare la tipica concessione di una politica avvezza a solleticare le simpatie ecclesiastiche (sul finanziamento alle scuole private, in gran parte religiose, vedi a p. 2) ben poco interessata a quanto quella cultura esprime. Quel che conta è invece una situazione di potere. Del resto a nessuno importa veramente la cultura religiosa, neppure oseremmo dire alla chiesa stessa (si veda l’esempio di verifica di religione nel numero scorso del foglio...). E in un’ora alla settimana non si impara neppure a strimpellare la chitarra...

L’aporia ora è evidente: i docenti di Irc scelti o comunque approvati dalla curia saranno a tutti gli effetti come gli altri professori. Con tutta la simpatia per molti insegnanti, che apprezziamo, questo è inaccettabile. Lo stato non può pagare docenti che non sceglie lui stesso secondo criteri pubblici. Di più: sarebbe ora che la chiesa facesse un passo indietro e chiedesse veramente una legittimazione culturale della religione, rinunciando a un insegnamento confessionale a favore di un insegnamento di storia delle religioni (compresa la storia dell’ateismo ed eventualmente la filosofia della religione, almeno negli istituti superiori dove si insegna filosofia) e chiedendo l’istituzione di facoltà statali di scienze religiose per la preparazione di tali insegnanti. In questo senso vanno le richieste di un recente convegno su «Società multiculturale, scuola italiana e cultura religiosa» svoltosi alla Facoltà Valdese di Roma il 23 maggio. Sappiamo bene che la cultura laica è, al di là delle moine, tutt’altro che disponibile verso questo passo. Le resistenze – è evidente – sono su entrambi i fronti. Ma solo così, in un’epoca in cui il fattore religioso viene sempre più chiamato in causa, a proposito e a sproposito (si pensi all’islam... quanti italiani saprebbero rispondere a banalissime domande su questa religione? e sulla propria?...), la cultura religiosa a scuola avrebbe finalmente quella dignità che desideriamo.

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