LIBRI |
L'uomo ti sta di fronte |
Preferivo il Pintor politico. Ora preferisco questo Pintor, che ricorda e immagina, immagina e ricorda la vita di uno che è malato terminale, poi non è più terminale (ma chi di noi non è terminale?) però si muove incerto sulla linea tra essere e non essere, come il principe danese. Principe, non politico. Voleva essere un idiota e si ritrova stupido, in un senso di queste parole diversissimo da quello corrente. Obbligato, più che condotto, dalla memoria, si aggira tra ricordi pesanti come delitti, che però non sono soltanto suoi, ma dell’umanità intera, o pressappoco. Delitti non impediti, perciò delitti nostri. E torna alla mente Hannah Arendt: «L’idea di umanità, una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica questa gravissima conseguenza: che gli uomini, in una forma o nell’altra, devono assumere la responsabilità di tutti i crimini commessi dagli uomini e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte le altre» (Colpa organizzata e responsabilità universale, 1945, in Ebraismo e modernità). «Quid est veritas?». «Est vir qui adest»: in una lingua fuori moda il calembour sfiora la verità per un attimo impigliata nel gancio dell’interrogativo. È ogni uomo che ti sta di fronte e di fronte ti ritorna nel ricordo, nell’afflusso caotico di ricordi che invade la condizione terminale. Queste verità sfilano nelle poche intense pagine del libretto, abbozzate nella scrittura asciutta, dall’aspro forte sapore, fatta di sostantivi e verbi, quasi senza aggettivi, ma sprizzante scintille, di Luigi Pintor. Ecco le verità: un piccolo cane affettuoso; il bimbo turbato che lui era a dieci anni, in fuga non sa dove; il dottor basilio (lui scrive tutti i nomi minuscoli) che muore prima del condannato; l’oca crocifissa; Genova e New York 2001; lo psichiatra simile ai suoi pazienti; il conte, la prostituta e il giovane gentilissimo riuniti nella clinica; le bimbe irlandesi prese a sassate; le troppe persone accompagnate al cimitero, anche due bambini (i figli di Pintor, che per un momento gli danno quella risposta rassicurante che aspetta, con le parole dell’angelo); la cara teresa (e dalli!), se potrà perdonarlo per non averla messa in guardia da questo stupido; il cardinale che vuole ritirarsi in meditazione a Gerusalemme (io le maiuscole gliele aggiungo), dove «si ammazza pregando e si prega ammazzando» e il barbiere, e l’infermiera. Ci sono anche le cose: la ringhiera del sesto piano e il gancio nel soffitto, che suggeriscono un «decesso volontario», ma col sapore di tradimento. Non c’è la signora serenità, che tutti invocano, mai conosciuta. Ognuno lascia una traccia di sé ed è più ragionevole desiderare di lasciarla nella memoria di poche persone che nella storia. Pace e guerra si alternano da millenni e la guerra batte la pace, crede lo scrittore terminale. Un temperino di plastica e un missile sono uguali perché il cuore dell’uomo ha intenti mortali. Il dottore muore dopo un lungo colloquio silenzioso tra malato e meno malato, e dimostra che «perfino una camera ardente è meglio di un campo di battaglia». La vera malattia non è la leucemia, ma «la sopravvivenza a crimini imperdonabili». Continuano a sfilare le verità: l’ufficialetto della prima guerra mondiale, con la scheggia in testa e le lancette impazzite; anche l’automobile è quasi un personaggio, che porta incollate nel parabrezza le «autorizzazioni a delinquere», e lui non riesce a regalarla perché la gentilezza suscita diffidenza. Ed ecco la confessione minuziosa dei delitti sognati-ricordati-non impediti. Ecco di nuovo la guerra, non è un sogno, questa volta anche l’Italia c’è dentro, così «non ucciderò più neonati per interposti bombardamenti ma tramite connazionali che hanno l’addestramento e la retribuzione giusta». Sfilano anche le altre guerre, la prima, la seconda, con le loro alte classifiche di ammazzati, e poi queste guerre moderne e perpetue. Il sonno porta in un luogo sconosciuto, forse la morte: «Non ci sono risposte divine alle domande terrene e si vede tutto senza vedere nulla». Ma forse non era la morte, questa somara cieca che fa girare la macina, che non merita riverenza né paura o speranza, e forse è la macina stessa, neppure l’asina, e un dio benevolo avrebbe dovuto inventare un meccanismo più fulminante. Meglio del trapianto del midollo – «Ma perché non si applica l’accanimento terapeutico ai mali del mondo invece che agli individui?» – sarebbe il trapianto della memoria, quella sgombra di un bimbo di cinque anni deceduto per cause naturali, o quella di un uomo senza affetti da rimpiangere. Ultimo «vir qui adest» è «un piccolo indiano» nel quale appare Gandhi, non nominato: «Finché l’uomo non si porrà di sua volontà all’ultimo posto tra le creature sulla terra non ci sarà per lui alcuna salvezza» (cfr almeno Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, p. 31). Verità già intuita negli occhi del piccolo cane e nell’oca inchiodata. Ma se l’uomo ne fosse capace sarebbe un altro uomo. Pretenderlo non si può. Ma – aggiungiamo noi – non si può sperarlo? Qualcuno lo ha fatto, qualcuno si è posto al di sotto di tutti. Qualcuno – come sta scritto – «essendo in forma divina, annientò se stesso fino ad accettare liberamente la morte, la morte infamante da schiavo». e.p. • Luigi Pintor, I luoghi del delitto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 78, € 9,50. |