A CENT’ANNI DALLA NASCITA DI ADORNO |
Memorie del dolore |
«Molte delle tesi di Adorno potranno sembrare, a un lettore italiano, paradossali e arbitrarie». Nell’introdurre, nel 1954, le pagine di Minima moralia, le prime di Adorno tradotte in italiano, Renato Solmi già alludeva ad una peculiare sommità filosofica. Vale infatti per Adorno quel che Norman O. Brown ha scritto di Freud: «Freud è paradosso, oppure non è niente». L’opera di Adorno prolifera sotto il segno della paradossalità perché – come quella di Freud del resto – sorta da un pensiero acutamente predisposto all’esperienza delle antitesi inconfessabili, dei labirinti inespugnabili delle contraddizioni. L’inconciliabilità di natura e spirito, di storia e dolore, di origine e fine, o la loro conciliazione solo nell’alterità non raffigurabile dell’utopia, sono nella dialettica adorniana le campiture sempre riaffioranti e ben visibili dietro gli sbocchi di colore della sua prosa ammaliante. Ma in Adorno questa paradossalità, occhio cristallino delle coscienze disperate, è ben lontana dal tradursi in rinuncia a convogliare ogni possibile forza spirituale in direzione di un’attenuazione dell’imperio della brutalità. All’opposto, nelle sue pagine serpeggia costantemente un impulso a muoversi contro qualche orrore, ed in primo luogo contro quel substrato di ogni orrore che è l’atto immediato del vivere: «ciò che prende il nome di manifestazione vitale, dalla fecondità rigogliosa della natura ai giochi turbolenti dei bambini fino alla bravura e all’abilità di coloro che sono riusciti a combinare qualcosa di buono e all’indole della donna, che viene portata alle stelle perché l’appetito vi si manifesta in modo così schietto, tutto ciò, preso alla lettera, partecipa della tendenza a privare della luce e della possibilità di esistere l’altro, il diverso, il possibile nel cieco impulso dell’affermazione di sé», ragion per cui «chi odia la distruzione, non può fare a meno di odiare anche la vita: solo il morto, l’inanimato, è l’immagine adeguata del vivente non deformato». L’orrore della natura-cultura Non si dovrebbe dimenticare che in Adorno lo spettacolo filosofico primigenio è quello di un mondo irretito nelle piaghe del dolore naturale. Prima di celebrare o inorridire, a seconda delle personali inclinazioni, di fronte all’Adorno critico della cultura, non bisognerebbe infatti esimersi mai dal rammentare l’Adorno critico della natura. La natura è il regno del sempre uguale, lo spazio inerte della violenza e della morte. In quanto tale si identifica con la colpa, con la brutalità immemoriale dell’origine. Ma la ragione che ad essa dovrebbe opporsi non fa che ricalcarne la furia annientante, esponenzialmente accresciuta nella potenzialità devastatrice: «la sua astuzia consiste nel fare, degli uomini, belve di raggio sempre più vasto». Non altra è l’antinomia (la dialettica) che l’illuminismo – la ratio umana dai primordi ad oggi – porta in cuore sin da principio. La ragione non equivale semplicemente, come nell’edificante racconto che l’Illuminismo ha fatto di se stesso, a trionfale emancipazione, ma è intimamente connessa alla cecità del dominio, all’ininterrotto sacrificio dell’individuo sull’altare delle essenze. In tutto questo si può anche leggere come in uno specchio la lunga storia della costruzione del soggetto e dell’identità occidentali: nel tentativo di sradicare l’opacità dell’oggetto-natura il soggetto-pensiero taglia con l’accetta qualsiasi cosa gli si pari di fronte, sino a ridurla alla forma prescelta – nella sottomissione della natura alligna già la matrice d’ogni sottomissione sociale. Dialettica dell’illuminismo, scritta in simbiosi con Horkheimer, la si può certo intendere come una sorta di smisurata glossa a quel rigo sapienziale di Benjamin che appare in Eduard Fuchs: «non vi è mai un documento di civiltà che non sia al tempo stesso un documento di barbarie». Il totalitarismo implicito nella ragione, interiormente posseduta dai demoni gemelli del dominio e della stupidità: questa resta, a tutt’oggi, la bussola concreta che Adorno ci ha messo a disposizione per riuscire ad orientarsi, con il dovuto sospetto, tra gli splendori della nostra civiltà. Così come Zygmunt Bauman, ad esempio, ci ha adornianamente insegnato a riconoscere che lo sterminio degli ebrei, lungi dal doversi considerare la caduta in un abisso di barbarie addebitabile al rinnegamento dei pilastri razionali della civiltà moderna, è stato reso possibile proprio dal processo di razionalizzazione interno a questa civiltà. Eludendo ogni rassicurante contrapposizione fra bene e male il critico dell’illuminismo mostra come il bene finisca per ribaltarsi continuamente in male e come la conoscenza abbia sino ad oggi collimato con il potere di disporre delle cose. L’orizzonte della redenzione Si può dire che i poli di attrazione del pensiero di Adorno siano l’assillo del dolore e la possibilità del suo rovesciamento nella felicità, felicità che per lui, nutrito come Benjamin dal sospetto ebraico nei confronti dell’immateriale, ha a che fare innanzitutto con l’integrità della carne. Ma occorre poi avvedersi che lo sfondo di questa antitesi non si restringe, pur ovviamente comprendendolo, all’ambito politico-sociale ed alle sue “tecniche”: per quanto la “società” si trovi al centro dei pensieri di Adorno e per quanto indubitabilmente gli spetti il titolo di padre esimio della sociologia critica, ci si priva della possibilità di intenderlo se lo si incardina nella routine sociologica o nei rimandi, più o meno generici, alla prassi, dal momento che per accedere al suo forziere filosofico occorre dotarsi di chiavi religiose (allo stesso modo si allontana da lui chi, nel leggerlo, non comprende che il suo argomentare non è mai un argomentare, quanto un avanzare per folgorazioni successive, per improvvise illuminazioni). Considerare le cose «dal punto di vista della redenzione» è la parola estrema di Adorno, il picco d’osservazione privilegiato in cui ogni sua sinuosità intellettuale pare inesorabilmente confluire. Solo nella prospettiva della redenzione la filosofia può articolare il linguaggio della sofferenza, e solo una filosofia capace di articolare la lingua della sofferenza è in grado di intendere qualcosa della redenzione. Il dolore è quel sedimento corporeo che dalle filosofie illuministe resta inafferrato e costituisce un criterio di verità sufficiente a sconfessarle: «la minima traccia di una sofferenza senza senso nel mondo dell’esperienza smentisce tutta la filosofia dell’identità, che vorrebbe farlo dimenticare all’esperienza». La conciliazione impossibile del mondo assume la figura biblica della speranza, l’attesa del novum che l’utopia adorniana promette, anzi indistintamente accenna, non cresce, o perlomeno non è confinabile, entro il recinto laico della “società giusta”, e se, letteralmente, finisce per sfociare nell’impotenza, accade solo perché ogni riflesso della potenza è da sempre il volto tangibile della colpa. La speranza diviene l’antagonista riconosciuta del mito – che raccontava la brutalità mai diversa della natura –, ruolo nel quale la ragione ha da tempo fallito, rimanendo schiava del mito e dell’orrore naturale da cui intendeva liberarsi: «la mitologia aveva riprodotto come verità, nelle sue configurazioni, l’essenza dell’esistente (ciclo, destino, dominio del mondo), e abdicato alla speranza. Nella pregnanza dell’immagine mitica, come nella chiarezza della formula scientifica, è confermata l’eternità di ciò che è di fatto, e la bruta realtà è proclamata il significato che essa occlude». È stato di certo sbrigativo Taubes quando ha fatto di Adorno il campione di una salvezza estetizzata, incline a ridurre l’apparire o meno del Regno ad alternative equidistanti ed ininfluenti. Mentre in Adorno davvero il dolore schianta ogni cosa sotto il peso della sua concretezza e del suo inesorabile proliferare; l’arte non ne dissolve l’urgenza, al contrario, è l’organo in grado di rivelarla, custode privilegiata della «memoria del dolore accumulato». Ed è qui, nella testimonianza dello strazio patito, che la natura ribalta la propria originaria ferocia per rivelarsi corpo martoriato e soglia della liberazione: «ciò che minaccia la prassi dominante e le sue alternative ineluttabili, non è certo la natura, con cui essa piuttosto coincide, ma che la natura venga ricordata». Al «sussumere sotto principi», operazione cardine di quell’intelletto calcolante attorno a cui il progredire illuminista si edifica, l’arte oppone il «ricordo del possibile contro il reale che ha soppresso il possibile», al conoscere per «successione» il saper pensare per «costellazione». Solo allo statuto enigmatico dell’arte, e non alla ragione rischiaratrice, può venir affidata per Adorno la promessa della trasfigurazione. Innanzitutto in questo l’arte è enigma: perché rimanda al mistero della redenzione. Massimiliano Fortuna |