Piccoli e grandi passi verso la barbarie |
La comunità monastica di Bose nell’ultima lettera agli amici (Pentecoste 2003) ha pubblicato questo testo che noi riproponiamo, nella convinzione che esso metta ben in evidenza come l’attuale conflitto tra Occidente e mondo islamico sia espressione del lato “barbarico” presente in entrambe le civiltà.
Questi mesi tristi per l’umanità, in cui il diritto della forza ha prevalso sulla forza del diritto per regolare conflitti e contrasti internazionali, hanno lasciato pesanti strascichi nei rapporti tra le nazioni, ma anche e soprattutto all’interno delle nostre comunità civili e nella coscienza di ciascuno. D’altro canto, proprio la gravità delle vicende ha anche provocato una serie di “apocalissi”, di manifestazioni di ciò che ciascuno ha veramente a cuore, di svelamento dei pensieri “segreti”, delle priorità etiche che animano il nostro agire nella quotidianità e nelle grandi svolte della storia. A noi è parsa particolarmente preoccupante l’accelerazione di un processo in atto da tempo nella nostra società occidentale: quello di un imbarbarimento nelle relazioni interpersonali, effetto e nel contempo causa di un progressivo slittamento verso la barbarie nei rapporti collettivi. Così quotidianità del vivere e convivenza civile si deteriorano e si sfilacciano in un clima da giungla in cui il più forte o il più arrogante non pretende nemmeno di avere “ragione” e di convincere chi la pensa diversamente, ma fa semplicemente quello che più gli aggrada. Uno scontro di barbarie In questo contesto, da più parti si sente evocare, invocare o rigettare l’idea di uno “scontro di civiltà” imminente o già in atto. E tutta l’attenzione si concentra sul primo termine, lo “scontro”, contrapposto a un più auspicabile incontro o dialogo o confronto, mentre ci si interroga molto meno sul secondo aspetto, la “civiltà”, quasi si trattasse di una conquista assodata e irreversibile e non fossimo, invece, di fronte a uno “scontro di barbarie”. I lati peggiori delle rispettive “culture” non vengono più contrastati ma, anzi, sono quotidianamente solleticati e stimolati, fino a farli diventare pensiero dominante. Ormai in ogni discussione c’è chi alza i toni del linguaggio abbassando simultaneamente il livello etico del contenuto: si giustificano le diseguaglianze, si alimenta il culto del più forte, il rigetto di qualsiasi morale collettiva, l’esaltazione della competizione sfrenata... La nostra società sta facendo passi decisi verso la barbarie, regressione e involuzione minacciano tutti i cammini faticosamente intrapresi dal dopoguerra in poi: c’è indifferenza verso i valori della democrazia, fuga riguardo all’impegno nella polis, disinteresse per qualsiasi orizzonte comunitario, addirittura volgarità nel confronto sociale. Sembra che in certi ambienti, soprattutto politici, si sia arrestato ogni cammino di umanizzazione: come è possibile che questo sia avvenuto? Com’è possibile il sistematico insulto, l’ostentato disprezzo verso l’altro, lo straniero, l’immigrato presente in mezzo a noi? Com’è possibile la continua demonizzazione del diverso, come se fosse l’incarnazione del male? Com’è possibile la violenta aggressività che ogni giorno ci viene presentata dagli schermi televisivi e che finisce per contagiare persino i rapporti familiari? Domande inquietanti che offuscano l’orizzonte della nostra esistenza, eppure la vitalità o meno della nostra cultura e della nostra convivenza sociale dipendono dalla reazione di ciascuno di noi a queste derive disumanizzanti. Barbarie, infatti, è ciò che non è ancora o non è più “coltivato”, ciò che rimane o ritorna allo stadio della pura emotività, dell’istinto animale, ciò che degenera e inselvatichisce per mancanza di criteri e di valori che permettano di discernere cosa è bello e buono per il singolo individuo e per l’umanità intera. Si può essere membri di una società senza coltivare un certo senso dell’appartenenza, senza cercare anche un’identità collettiva? Solo con una memoria comune e un’appartenenza plurale ma condivisa si può edificare un avvenire comune. Invece sembriamo incapaci di una memoria, giusta, elaborata nel confronto: l’esempio della barbarie manifestatasi nel disfacimento della Jugoslavia dovrebbe farci capire che memoria non è fissazione sui torti subiti nel passato né deformazione degli eventi, ma rielaborazione condivisa delle ferite inferte o ricevute. Sono invece la caricatura della memoria e la ghettizzazione della storia che forniscono gli alibi alla barbarie: assistiamo così al ritorno delle tribù, ai miti del sangue e della razza, alla tirannia di gruppi chiusi su se stessi che si autodefiniscono contro l’unità della società e della nazione. Xenofobie tribali e feticismo delle etnie non sono allora amene curiosità folcloristiche, bensì una minaccia per il futuro dell’Europa e una premessa ideologica alle pulizie etniche. La convivenza avvelenata In questo senso, assumono tragica rilevanza anche i “piccoli passi”, i gesti apparentemente insignificanti, compiuti senza pensarci troppo o, magari, convinti che “non sono poi così gravi”, ma che di fatto avvelenano la nostra convivenza civile, svuotano la democrazia, sviliscono la politica, favoriscono la violenza privata e istituzionale, minano il concetto stesso di giustizia, deformano la libertà. Gli ambiti di questa lotta tra barbarie e civiltà vanno dal personale al collettivo, dal locale all’universale e investono i rapporti familiari come il sistema scolastico, l’erosione della democrazia come la bioetica, i diritti dell’uomo e la pace, la risposta al terrorismo e la ricerca di una speranza non utopica. Ed è chiaro che in società culturalmente indebolite e sempre più individualiste si hanno meno anticorpi contro il ritorno del «capo», dell’«Unto», dell’«uomo della Provvidenza»: scomparse le mediazioni sociali, il fascino mediatico esercita un dolce dispotismo che favorisce il bisogno e il culto del Capo. Eliminato il faticoso progetto politico comune, nell’immaginario rimane spazio solo per il dolce tiranno. Da questa amara analisi vogliamo elevare un appello alla vigilanza, al non rassegnarsi alla parcellizzazione dell’individuo, al lavorare con rinnovato vigore alla custodia dei rapporti interpersonali e sociali. Dobbiamo essere consapevoli che è reale il rischio di pensare che siano gli altri e non noi a poter cadere nella barbarie, dobbiamo demistificare la credenza in una società perfetta, rifiutando così ogni utopia, ma nel contempo opponendo resistenza contro la barbarie: questa resistenza - possibile, necessaria e doverosa - potrà allora animare una nuova cultura dell’impegno. Ed è un appello che si rivolge innanzitutto a noi cristiani, affinché sappiamo trarre da questa ardua sfida elementi per un rinnovamento della nostra fede e della testimonianza resa nel mondo: un cristianesimo critico e, proprio per questo, capace di edificare una convivenza più abitabile; una chiesa che sia fermento di civilizzazione e di umanesimo in una società laica, multietnica e religiosamente variegata. Occorre la vigilanza di uomini e donne che non rinuncino a pensare, occorre l’impegno di “sentinelle”, come Giovanni Paolo II ha voluto chiamare i cristiani in quest’ora difficile: sentinelle del dialogo, del confronto, dei diritti, della pace. Sì, perché la barbarie non è una fatalità, e l’annuncio del Vangelo è davvero “buona notizia” per tutti. I fratelli e le sorelle di Bose |