Editoriale |
L’ intervento governativo sulle pensioni è inaccettabile almeno per due ragioni generali, l’una di metodo, l’altra di merito. La ragione di metodo è presto detta e sta sotto gli occhi di tutti. Per nascondere l’assoluta inadeguatezza della legge finanziaria, come al solito piena di condoni e provvedimenti una tantum, il governo ha pensato di affrontare e risolvere in poche settimane e da solo una questione sociale di ampio respiro e di enorme impatto sociale, come quella della riforma del sistema pensionistico, che avrebbe dovuto impegnare politici di maggioranza e opposizione, esperti del settore di diverse discipline e di diverse correnti di pensiero, sindacati, rappresentanze dell’artigianato, del commercio e dell’industria per mesi. Così per evitare Scilla e baipassare Cariddi, il Cavaliere si è inventato il mostro politico e giuridico di una legge votata oggi, in gran fretta, per entrare in vigore tra cinque anni. Come suo costume, credeva di vender bene la pelle dell’orso prima di averlo catturato e si è trovato con una proposta legislativa che, per ragioni diverse, non piace a nessuno, e non è neppure condivisa da tutti i partiti della maggioranza. Tanto che il testo definitivo non è ancora chiaro a nessuno e attende che il governo stesso progonga gli ultimi emendamenti correttivi. La questione di merito, che a quelle di metodo si collega, è anche più importante, in quanto riguarda la necessità di tenere presente il quadro di riferimento complessivo del sistema pensioni. È giusto ricordare che il prolungamento complessivo della durata di vita trascina, quasi narturalmente, con sé l’innalzamento dell’età minima per il pensionamento e che il mantenimento di un equilibrato rapporto tra lavoratori in attività, sempre meno numerosi, e pensionati, sempre più numerosi, è indispensabile per garantire la salute finanziaria dell’Inps. Ma è anche vero che tutto ciò non può avvenire per automatismi, perché il diritto alla pensione non è una semplice conseguenza o prolungamento del diritto del lavoratore allo stipendio. È un diritto sociale che si collega al diritto alla giusta retribuzione del lavoro, ma non si esaurisce in esso. Hanno ragione coloro che chiedono di distinguere nel bilancio dell’Inps tra spesa pensionistica, dipendente dal contributo dei lavoratori, e spesa pensionistica legata a esigenze di assistenza, ma hanno torto se pensano che questo debba portare alla separazione netta e assoluta della prima dalla seconda. Allo stesso modo sbaglia chi pretende che l’intero settore pensioni debba economicamente reggersi sul pareggio tra contributi dei lavoratori e costo delle pensioni erogate senza l’intervento riequilibratore della fiscalità generale. Per giungere a una riforma pensionistica capace di durare nel tempo e di garantire la massima equità possibile tra le diverse categorie di pensionati e di chi non ha, per ragioni diverse, adeguato reddito da lavoro, è necessario inserire tale riforma nel più vasto insieme delle spese sociali. Solo così si evidenzierebbero e potrebbero essere risolte le sperequazioni del settore (pensioni d’oro degli alti dirigenti, categorie privilegiate, anomalie scandalose a vantaggio dei politici). E solo così i frutti degli eventuali sacrifici chiesti ai pensionati sul piano dell’età pensionabile e dell’ammontare della stessa pensione non finirebbero con l’arricchire ancor più coloro che già sono ricchi, ma sarebbero ridistribuiti tra coloro che non hanno altro reddito se non da lavoro, da pensione o da sussidi di indennità e di disoccupazione. Se si vuole riformare lo stato sociale, bisogna riformarlo all’interno di un disegno complessivo di riordino e ridistribuzione equilibrata dei suoi costi e dei suoi benefici. Riformarlo a pezzi significa rottamarlo, come bene ci stanno dimostrando i provvedimenti sulla scuola, sulla sanità e sulla famiglia. Con la scusa, ad esempio, di valorizzare quest’ultima, offrendole finanziamenti specifici, infatti, si smantellano le strutture sociali e comunitarie che le facevano da supporto. Si offrono alle singole famiglie sgravi fiscali e contributi, apparentemente significativi, per l’iscrizione alle scuole private e per incentivare la natalità, e intanto si sottrae loro dieci volte tanto attraverso la riduzione dei servizi pubblici e della pubblica assistenza. Così le famiglie sono sempre più sole e più povere. [ ] |