La croce come marca identitaria |
Siamo già intervenuti più volte sul tema del crocifisso (l’ultima nel n. 295). Dopo la levata di scudi plebiscitaria (anche Ciampi!) destata dalla sentenza di un giudice dell’Aquila che ha prescritto la rimozione del crocifisso dalle aule di una scuola, pubblichiamo le riflessioni di Armellini, del Comitato Scuola e Costituzione di Bologna, scritte prima di quest’ultima occasione. Nella Prima lettera ai Corinti l’apostolo Paolo definisce «scandalo» e «follia» la croce di Cristo. Queste espressioni sottolineano la radicale incompatibilità tra la fede, che riconosce la presenza di Dio in un corpo d’uomo sofferente, condannato a una morte ignominiosa, e la sapienza umana, che associa l’idea del divino all’onnipotenza, all’incorporeità, all’imperturbabilità. Oggi si richiede a gran voce che l’immagine di quell’uomo agonizzante, riprodotta in decine di migliaia di copie fatte in serie, sia affissa nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici, a testimoniare le radici cristiane della nostra cultura. Mi stupisce che i credenti che si fanno latori di questa rivendicazione non si rendano conto che, riducendo l’icona di Cristo in croce a un rassicurante simbolo delle tradizioni codificate e dell’ordine costituito, si finisce per svuotarla del suo carattere sconvolgente, e per falsarne profondamente il significato. Ho insegnato per molti anni (fino all’ultimo concordato) con il brutto crocifisso d’ordinanza, prescritto per tutte le scuole d’Italia come segnacolo della “religione di stato”, appeso alle mie spalle. Non mi sono reso conto che questa presenza suscitasse nei miei alunni riflessioni profonde sul destino umano e sul senso della vita. Mi è sembrato anzi che il depositarsi quotidiano di sguardi distratti degradasse l’immagine sacra al rango di una banale suppellettile, paragonabile agli attaccapanni o alla lavagna, con l’aggravante di non svolgere alcuna funzione pratica. Nessuno si accorgeva che il nostro tran tran didattico scorreva di fronte alla rappresentazione di una tragica agonia. Ridotta a insignificante ornamento standardizzato imposto per legge, la croce di Cristo non aveva più nulla di folle o di scandaloso. Ancora più grave mi sembra che, da parte delle gerarchie di una chiesa cristiana, si insista sull’identificazione tra quel simbolo e la nostra tradizione culturale. Nessuno può negare che l’arte, la letteratura, il pensiero dell’occidente siano profondamente segnati dal cristianesimo. Ma non tutto ciò che si è compiuto in nome di Cristo è stato eticamente commendevole, come dimostrano i numerosi mea culpa dell’attuale pontefice. La traccia storica dei dogmi e dei simboli cristiani è depositata nella Commedia di Dante come nella vicenda delle crociate, nell’opera di Michelangelo come nei roghi della Santa Inquisizione. Per secoli le comunità ebraiche e le altre minoranze religiose hanno visto nella croce un simbolo di persecuzione più che di amore fraterno. E si potrebbe continuare a lungo. Mi sembra insomma che l’esperienza storica dovrebbe aver insegnato a noi cristiani che non è il caso di identificare i nostri progetti, le nostre imprese, i nostri modelli di società con le misteriose intenzioni del Dio nel quale crediamo. Il ricordo di quell’uomo crocefisso dal potere politico e religioso non merita di essere utilizzato come marca identitaria che contrassegna un territorio, bandiera delle ragioni di una cultura contro altre culture: è un errore che la cristianità ha compiuto per secoli, da cui ci mettono in guardia voci ed eloquenti silenzi, provenienti dalle zone più pensose dello stesso mondo cattolico. Guido Armellini |