DILEMMI DELL'AGIRE CRISTIANO |
La pace, fine della politica |
Pubblichiamo una sintesi rivista dall’autore della relazione che il prof. Claudio Ciancio, docente di filosofia teoretica all’Università di Vercelli, ha tenuto a Torino, nella chiesa di Santa Pelagia, il 12 giugno 2003, nell’ambito di un ciclo sulla pace. Nella prima parte, Ciancio distingue nella storia del pensiero riguardo alla pace e alla guerra due posizioni opposte: quella che ritiene la guerra naturale e quella che ne afferma il carattere innaturale. La prima posizione si articola a sua volta in due direzioni: negli uni (Machiavelli, Hobbes) prevale una valutazione pessimistica della naturalità della guerra, legata a una considerazione pessimistica della natura umana; al contrario molti pensatori dell’Ottocento attribuirono una valenza positiva alla naturalità della guerra (in diversi modi: Hegel, Proudhon, Nietzsche). Ma fin dall’antichità si levarono voci meno favorevoli alla tesi della naturalità della guerra – ed è la seconda posizione: fu soprattutto la religione ebraico-cristiana a diffondere la convinzione della non naturalità della guerra. Anche questa prospettiva si è articolata in una versione più pessimistica, che ha comunque sostenuto la liceità della guerra giusta come estremo rimedio o come male minore (S. Tommaso), e in una più ottimistica, che ha sviluppato proposte e ricerche in direzione della creazione di una società sovranazionale capace di dirimere i conflitti. Più radicalmente ottimisti sono stati i movimenti pacifisti (anabattisti, quaccheri, il filone francescano o anche Tolstoj). Una terza posizione riguardo alla naturalità della guerra è quella secondo cui la guerra e la pace sono ambedue naturali, e si deve particolarmente a Kant. Il suo presupposto è che «la guerra la si direbbe quasi connaturata all’uomo», ma la natura morale dell’uomo lo destina originariamente alla pace. In ogni caso «la guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo» (quindi non è neanche un male minore). La fine della guerra è pensabile, e in questo senso possiamo parlare di un ottimismo di Kant, fondato sulla convinzione di una convergenza tra la natura, che spinge gli uomini alla ricerca dell’utile (in particolare lo spirito commerciale), e il dovere morale (la legge morale di per sé esige che si agisca come se la pace fosse possibile). La terza posizione che ho esposto è quella in cui mi colloco, con particolare vicinanza alla prospettiva di Kant, che ha una profonda radice cristiana, poiché riconosce che né la pace né la guerra sono naturali. È il riconoscimento del peccato originale, non importa quanto esplicito, che ha qui una portata decisiva e discriminante: impedisce di pensare la natura umana come semplicemente buona o semplicemente cattiva, ma impone di differenziare il concetto di natura. In tale differenziazione ha la sua radice la difficoltà di pensare la pace, che solo un pensiero complesso e non semplicistico può cercare in qualche modo di abbracciare. La politica tra pace e guerra La prima e fondamentale difficoltà nel pensare la pace è il rapporto che la politica ha con la guerra. La politica si presenta infatti come alternativa alla guerra, come la via verso la pace, e tuttavia proviene dalla guerra e ne è contaminata: è un’attività ibrida (come ibrida e ambigua è la condizione della natura umana). Da un lato la guerra è prosecuzione della politica con altri mezzi, cioè uno stato di lotta politica che si svolge a mano armata (Clausewitz), d’altro lato la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, cioè una guerra incruenta (Schmitt). Non si può ridurre la politica all’orizzonte dalla guerra: nemmeno la guerra si riduce alla guerra, la sua dimensione politica è l’aver come fine la pace. Ma, pur avendo come fine la pace, non si può nemmeno ridurre la politica all’orizzonte della pace. Mi pare che essa degeneri o si dissolva, se tenta di perdere il suo carattere ibrido: o perché elimina uno dei due termini o perché tenta di unificare i due opposti. Da un lato la politica può regredire alla guerra facendosi strumento di violenza e perdendo così la sua funzione pacificatrice, dall’altro può pretendere di essere pura azione di pace, ma in questo modo rischia di ridursi a semplice testimonianza. Più pericoloso ancora è il tentativo, largamente praticato, di fare una perfetta sintesi, cioè di non percepire il carattere contraddittorio di una politica che difende la pace con mezzi violenti o presenta la guerra come pacificatrice. In realtà la politica sta tra pace e guerra, è il superamento della guerra in vista della pace, ma facendo guerra alla guerra, violenza alla violenza. Pascal ha insistito su questa funzione negativa della politica. Se è vero, pensava, che il potere si ammanta di una radicale falsità, tuttavia, nell’ordine della concupiscenza, cioè al di fuori della grazia, non vi è altra possibilità. Il potere di per sé non è giustificato, lo è solo perché evita la guerra civile che è per lui il peggiore dei mali. Se poi la pace è turbata da una guerra portata dall’esterno, allora non ha senso lasciarla dilagare. Riferendo la pace all’ordine strettamente politico è difficile dargli torto. Nell’ordine politico la pace è lo strumento che permette la conservazione dei beni. Se questi sono messi a repentaglio, che senso ha ancora la pace? Vi è qui un’aporia della pace. Ma appunto Pascal parla della pace politica mettendo una grande distanza fra l’ordine della politica e quello della carità, e perciò una distanza infinita tra politica e morale. La politica frena e utilizza la concupiscenza, nella morale invece vi è conflitto fra concupiscenza e carità. E tuttavia se i diversi ordini sono distinti, è un male che l’ordine inferiore non sia subordinato al superiore. Del resto il bisogno che ha la politica di ammantarsi di giustizia, di fare apparire giusta la forza, dimostra che essa non può sottrarsi a questa subordinazione all’ordine etico. La politica può e deve essere guidata da un’idea positiva del bene, il bene comune come bene che accomuna, come instaurazione di rapporti di comunione, ma ciò che può fare è soltanto rimuovere gli ostacoli, perché il suo punto di partenza è la conflittualità degli uomini e degli stati. Patire la contraddizione Se dunque si persegue la pace con lo strumento della politica, è difficile andare al di là di un concetto negativo: pace come assenza di guerra. A questo concetto negativo Bobbio ha opposto come concetto positivo di pace quello della regolamentazione dei rapporti fra le parti. In realtà la regolamentazione implica un potere coercitivo, è un impedimento coercitivo della guerra. Mi pare perciò che la pace sia pensata negativamente non solo quando è intesa come assenza di conflitti, ma anche quando ha il senso di sistema di garanzia degli interessi altrimenti minacciati. La pace intesa positivamente è allora difficilmente concepibile: non appena si cerca di immaginare la sua realtà si cade in contraddizione. Facilmente finisce per apparirci come una tendenziale cessazione o almeno riduzione della vita, che è caratterizzata da lotte e contrasti. Al limite sembra pensabile soltanto secondo l’esordio autoironico del saggio Per la pace perpetua di Kant, che ricorda come abbia preso quel titolo dall’insegna di un oste olandese nella quale era dipinto un cimitero. Cos’è allora la pace intesa in senso positivo e autentico? Agostino nel De civitate Dei definisce la pace “tranquillità dell’ordine”, quello per cui ogni cosa sta al suo posto e agisce secondo la sua natura. Ma questa è un’idea escatologica. Positivamente la pace è una condizione definitiva al di là della lotta, cioè è una condizione non politica. Non riusciamo a pensare la pace come armonia del tutto, perché la nostra stessa condizione storico-mondana lo impedisce. Tutto ciò non esenta la politica dal restare sottomessa alla morale e perciò dal farsi guidare dal fine della pace, un fine che pure la eccede radicalmente, al punto che questo suo fine è anche la sua fine. La politica è la più grande delle azioni, ma in fondo anche la più contraddittoria, perché quando il suo fine si realizzasse saremmo al di là di essa. Perciò la politica ha, nel migliore dei casi, un carattere insieme utopico e negativo: è guidata da un ideale che non può realizzare; non può rinunciare alla costrizione, ma attraverso la costrizione non avvicina la pace, suo vero fine, ma tiene solo lontana temporaneamente la guerra. Potremmo forse accontentarci di una pace storica e non escatologica; ma non è così semplice come credono i realisti: non possiamo sottrarci all’ideale o all’obbligazione morale della pace compiuta, perciò non ci accontentiamo delle paci che conosciamo nella storia, che presuppongono e richiedono sempre qualche forma di violenza. Per questo sempre risorge il pacifismo, che attesta il carattere inaccettabile della pace politica e offre una preziosa testimonianza, almeno finché non sia cieco rispetto alle contraddizioni della pace, cioè alla radicalità del male. C’è forse un unico modo accettabile di stare come cristiani nell’ordine politico, quello di patire la contraddizione insanabile fra agire politico e agire cristiano. Non esiste perciò propriamente una politica cristiana. La laicità della politica sta anzitutto in ciò, prima ancora che nel fatto di essere sottratta all’interferenza della chiesa. La laicità è perduta quando si assegna alla politica un compito di positiva realizzazione del bene: è una politica che diventa un’azione sacra, una crociata per l’impero del bene. È di gran lunga preferibile una politica che sappia dei suoi limiti e dei suoi mali rispetto a una politica che abbia la presunzione d’essere pura opera di bene e giustizia. Il cristiano che fa politica sarà sempre lacerato e la sua azione, in qualche modo, meno convinta e più tormentata. Nelle figure migliori dei cattolici impegnati in politica, soprattutto qualche tempo fa, c’era qualcosa di ciò. C’è un abisso fra queste figure e quelle di coloro che oggi nella loro azione politica si fanno paladini della civiltà cristiana e si pongono come realizzatori del bene e a partire da questo presupposto possono fare o sostenere la guerra senza incertezze. La politica ha bisogno di pudore. La laicità della politica è questo suo pudore, la coscienza della pace come del limite che la delimita e che proprio per questo essa non può mai afferrare. Il limite è ciò che dà forma, ma è anche un confine, ciò che segna allo stesso tempo l’inizio e la fine. La pace è quest’inizio e questa fine, la pace è un nome di Dio. Una via non politica Ma esistono forse altre vie, non politiche, che conducano alla pace autentica? Se la forza può produrre soltanto una pace fondata sulla paura, dunque non autentica, a sua volta una pace perseguita con la nonviolenza e col martirio è forse più sicura? Più che illuderci circa la realizzazione della pace, possiamo e dobbiamo anzitutto testimoniarla. La pace vera è oggetto di testimonianza, nel senso di attestazione di qualcosa che è nell’ordine dell’invisibile. Dev’essere perseguita, ma come qualcosa che eccede le reali possibilità umane. Sarebbe relativamente facile da conseguire se si trattasse soltanto di comporre contrasti di interesse, vi sono invece nell’uomo e nella natura quelle opposizioni insuperabili, di cui s’è detto, ed anche pulsioni negative e distruttive, risorgenti in forme sempre nuove. Per questo la pace non può dipendere solo da giustizia e sviluppo, che di per sé sarebbero conseguibili. A ragione il Papa ha detto che occorre il perdono, perdono dato e ricevuto. Nel perdono gli impulsi di esclusione e di distruzione si capovolgono radicalmente perché la colpa dell’altro anziché essere vendicata è scontata dalla vittima (non cancellata). La via che il cristianesimo propone è una via, se non sempre inconciliabile, certamente altra rispetto alla politica. È la proposta dell’interruzione della catena delle violenze, comprese la deterrenza e la violenza regolamentata. Un’interruzione che avviene in quanto la vittima non risponde e si espone alla violenza. In questo modo la catena di sangue è interrotta perché la vittima la porta su di sé senza scaricarla su altri. Pare che il violento non abbia più motivo di infierire. Ma il sadismo? La nonviolenza e la mitezza non possono eccitare la crudeltà? E il perdono non accettato? E abbiamo diritto di perdonare il male fatto ad altri? E possiamo esporre, insieme a noi, anche altri alla violenza? E in ogni caso che pace è quella costruita sulla sofferenza dei meno violenti, delle vittime? E il calcolo del male minore è giusto, ma è ben difficile: non si può agire senza calcolare le conseguenze, ma chi può davvero calcolarle? Solo per presunzione si possono dare risposte certe a questi interrogativi. La teorizzazione di scelte nette e costanti in questo campo è segno di cecità o leggerezza: forse neanche come cristiani si può esser sempre pacifisti o sempre fautori della guerra giusta. La vocazione alla pace non ci pacifica ma inquieta e tormenta. E questo forse non è che l’ultimo dei paradossi della pace. Claudio Ciancio |