GLI STUDI DI MILGRAM SULL'AUTORITÀ
Obbedisco!

All’incirca negli stessi anni in cui si teneva a Gerusalemme il processo a Adolf Eichmann, Stanley Milgram stava conducendo all’Università di Yale degli esperimenti sulla sottomissione all’autorità. Nel raccontare quel processo Hannah Arendt diede alla luce un libro decisivo, La banalità del male. In esso prendeva forma un pensiero di singolare scomodità: ad Eichmann, uomo chiave delle procedure di smistamento degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, non si addicevano i tratti del “mostro”, non era un radicale e spietato antisemita, dominato dal compiacimento dell’efferatezza, ma un uomo ordinario, fortemente posseduto da una vocazione all’efficienza, desideroso innanzi tutto di svolgere il proprio lavoro con estrema meticolosità e godere dell’apprezzamento dei superiori. L’immenso male a cui aveva contribuito poteva dirsi banale, perché frutto di una mente sordidamente impiegatizia, incapace di articolare un linguaggio privo di cliché burocratici e di intendere il punto di vista di qualcun altro.

Un esperimento provocatorio

Accostandosi agli studi di Stanley Milgram (Obbedienza all’autorità, Einaudi, 2003, pp. XLVIII-205, € 20) ci si sente rapidamente pervasi da una scomodità affine. A inocularla è la constatazione di quanto poco vincolanti possano risultare, per una persona comune, valori morali essenziali, quali l’esigenza di non infliggere sofferenze a uomini inermi, di fronte alle richieste di un’autorità riconosciuta. In breve, Milgram concepì l’esperimento seguente: dietro invito dell’Università due persone prendono parte ad una ricerca su «la memoria e l’apprendimento», una nel ruolo di insegnante, l’altra in quello di allievo, a dirigerli uno sperimentatore, rappresentante dell’autorità scientifica. L’allievo ha il compito di ricordare delle associazioni verbali lette dall’insegnante, quest’ultimo ad ogni errore deve somministrargli una scossa elettrica di voltaggio crescente e sempre più dolorosa. In realtà questa scena è fittizia, allievo e sperimentatore non sono che attori, il dolore e le scosse simulati. L’intento di Milgram consisteva infatti nell’analizzare sino a quando l’insegnante, pur di obbedire alle sollecitazioni dello sperimentatore, avrebbe accettato di provocare sofferenze all’allievo. Circa due terzi dei soggetti osservati preferirono non trasgredire le disposizioni dell’autorità e giunsero a somministrare una scossa conclusiva di 450 volt, potenzialmente mortale. Oltre a questa versione base l’esperimento fu replicato in molteplici varianti, in una fra le più significative si è rilevato, ad esempio, come il ridursi della distanza fisica fra allievo ed insegnante abbia indotto quest’ultimo a ribellarsi con maggior risolutezza all’autorità.

L’indagine sperimentale si svolse tra il 1960 e il 1963, in seguito Milgram organizzò compiutamente questo materiale, e ne nacque un libro, Obedience to Authority (1974), non meno imprescindibile di quello della Arendt (Bompiani lo pubblicò in italiano l’anno seguente, e viene ora riproposto da Einaudi, con l’aggiunta di un saggio di Adriano Zamperini).

Pur nella smisurata varietà dei casi reali, irriproducibile in una verifica di laboratorio, Milgram ritiene di aver portato alla luce un’unità di misura psicologica: «la capacità degli individui di rinunciare alla loro umanità, anzi, la necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali». Affermazione irritante ovviamente, perché accettarla significa ammettere che gli orrori su larga scala non si attuano mai per la brutalità straordinaria di pochi sadici, ma per l’ordinaria acquiescenza dei più. E non si pensi unicamente a regimi totalitari o autoritari, la definizione «esperimento Eichmann», data da Gordon W. Allport, per Milgram doveva considerarsi calzante ma insieme riduttiva; i meccanismi dell’obbedienza si giocano quotidianamente, a qualsiasi latitudine politica: la «tratta dei neri e la schiavitù di milioni di persone, la distruzione degli indiani d’America, l’internamento dei giapponesi americani nei campi di concentramento, l’impiego del napalm contro la popolazione civile in Vietnam, sono altrettante misure ripugnanti ordinate dall’autorità di un paese democratico e sono state eseguite con puntuale disciplina».

Minacce alla sopravvivenza

Milgram non guarda all’autorità come un ribelle vacuo, considera lo strutturarsi in gerarchia un cardine ancestrale e indispensabile della sopravvivenza umana; d’altra parte, i processi distruttivi che la disposizione ad obbedire può mettere in moto vanno in direzione precisamente opposta alla sopravvivenza. È un antinomia pressoché disperante quella che Milgram evoca quando, quasi inattesa, lascia cadere la frase chiave del libro: «crescendo, ogni individuo normale ha imparato a tenere sotto controllo gli impulsi aggressivi. Ma la cultura non è quasi mai riuscita a inculcare controlli interni su azioni che hanno origine in un sistema di autorità. Questo è un pericolo enorme per la sopravvivenza della specie umana», e di lì a poco s’incarica di precisarla: «se, da un lato, la tecnologia ha aumentato il potere dell’uomo, fornendogli i mezzi per la distruzione di altri esseri a distanza, l’evoluzione non ha avuto la possibilità di fornire degli inibitori contro queste forme di aggressione remota». Fuso nel crogiolo tecnologico il nodo dell’autorità rivela un innesco esplosivo di proporzioni devastanti. Del resto, la discrepanza fra corpo tecnico e risorse spirituali rinvia ad un pensiero guida del Novecento, pensiero che è stato di Anders e di Jonas, come di Bergson: l’uomo, divenuto signore delle macchine, resta l’apprendista di sempre in ambito morale, all’accresciuto potere di dominio dello spazio fisico non ha fatto riscontro uno speculare incremento d’anima. Il tutto contribuisce poi ad illuminare l’impatto di un virus che va di pari passo con la modernità – dal momento che altro non è che un suo esclusivo portato –, quello della specializzazione. Scrive Milgram: «il frammentarsi dell’attività umana in compiti limitati e altamente specializzati ha avuto come risultato il deterioramento della qualità del lavoro e dell’esistenza degli uomini. L’individuo che è incapace di giudicare le situazioni nel loro insieme, poiché ne scorge solo una piccola parte, non può agire senza una qualche direttiva esterna». Magari provino a farci sopra una modesta riflessione quei cervelli à la page che ridacchiano sull’inutilità della filosofia o sull’obsolescenza della religione. Vecchi armamentari d’idee, credono in molti. Eppure, per acquisire la capacità di risalire dall’ingranaggio settoriale delle proprie azioni sino all’assolutezza etica che continuamente fa loro da sfondo, certi arnesi d’antan possono ancora venir buoni.

Massimiliano Fortuna


 
 
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