A 100 ANNI DALLA NASCITA
Pellegrino, vescovo, padre e profeta

Fra le tante manifestazioni in ricordo di Michele Pellegrino nel centenario della nascita, merita speciale
attenzione quella svoltasi a Roata Chiusani, dove venne alla luce e dove si trovano la modesta casa dei suoi e la parrocchiale in cui, il giorno dopo la nascita, secondo l’uso delle famiglie più religiose d’allora, fu battezzato.

Pubblicchiamo l’intervento pronunciato dal professor Franco Bogliani nell’occasione, apprezzato dai vescovi di Cuneo, Fossano e di Pinerolo e dai cardinali Martini e Cè.


Non vorrei andare fuori tema, ma inizierei col chiedermi se l’ormai definitiva soppressione della diocesi fossanese, con l’accorpamento a quella di Cuneo, sarebbe stata di suo gradimento.

Piccolo è bello

Non c’è dubbio che il problema delle diocesi troppo grandi, accanto alle troppo piccole, sia da tempo un problema serio per la Chiesa in Italia e che tale rimanga in varie province ecclesiastiche, nonostante le trattative intercorse fra Chiesa e Stato italiano. Ho peraltro l’impressione – e mi autorizza a pensarlo un passo o due di un’intervista concessa da Pellegrino a Giuseppe Lazzati, in cui si accenna a meriti e vantaggi delle diocesi medie e piccole che per tradizione di fede e di impegno si possono considerare all’avanguardia – che egli non amasse le diocesi troppo grandi. Ho l’impressione, dicevo, che Pellegrino, avendo anche sempre presente un certo riferimento alla Chiesa antica dei Padri, considerasse le diocesi piccole o medio-piccole come dotate di un significato pastorale particolare, in quanto consentono ai vescovi una conoscenza personale e un contatto più diretto coi fedeli. Non solo, ma lasciano loro spazio e tempo per letture e riflessioni personali, che ne arricchiscono l’azione e ne rendono più visibile la presenza, senza obbligarli a ricorrere troppo a mediatori e a strutture curiali eccessivamente burocratiche e senza fare appello alla figura del «vescovo ausiliare, che presenta – aggiungeva – ambiguità che non so se la teologia abbia risolto».

«Il capitolo delle colpe»

Mi è capitato di ricordare nella premessa al volume di Alessandro Parola, Michele Pellegrino: gli anni giovanili (Primalpe, Cuneo 2003), che proprio il periodo della giovinezza e della prima maturità del futuro Arcivescovo di Torino erano, fino ad ora, quelli meno conosciuti e studiati della sua vita. Ora il volume colma questa lacuna.

Non ripeterò quindi ciò che nel libro tutti possono leggere. Avanzerò una proposta un po’ diversa di lettura della documentazione raccolta. Invece che dagli inizi della vita e della attività di Pellegrino, partirò dalla fine, cioè da quella sorta di autoconfessione che egli intitolò «Il capitolo delle colpe», steso fra aprile e maggio 1981, quando Pellegrino aveva 78 anni, e che fu pubblicato poi a puntate dopo la sua morte nel 1986.

Ricordiamo innanzi tutto che «capitolo» in questo testo di Pellegrino non è da intendersi nel senso corrente, di capitolo o paragrafo di un libro, di uno scritto. «Capitolo» qui, e vi accennava lo stesso Pellegrino, rimanda alla prescrizione monastica che già si trova nella Regola di San Benedetto, di «riunione del capitolo di una comunità», per un esame collettivo e fraterno delle mancanza e delle colpe dei singoli monaci.

Ci autorizzano a ripartire da questo testo le parole stesse che Pellegrino scriveva. Egli si rivolgeva infatti a quella che collettivamente chiamava «la comunità» e che certo andava oltre la singola comunità monastica riunita per una adunanza capitolare, pur conservandone il senso e la portata. «La comunità di fronte alla quale mi sento responsabile ... comprende la parrocchia di Roata Chiusani, dove sono nato e cresciuto, la chiesa diocesana di Fossano, con tutte le sue articolazioni, dove sono stato chiamato a prestare svariati servizi, la Università dove ho studiato (la Cattolica del Sacro Cuore) e insegnato (Torino), con tutti i colleghi e alunni, la chiesa torinese nella quale sono succeduto come pastore, immediatamente, al cardinale Maurilio Fossati – grande figura di vescovo! – e, lontanamente, a San Massimo. Ma forse dovrei guardare anche più lontano. Predicando e scrivendo, ho accettato la responsabilità di comunicare con molti altri fratelli – come si fa a contarli tutti?».

Una «paternità semplice e schietta»

Mi pare quanto mai significativo questo slargamento di paternità. Ripensando alla sua vita. Pellegrino ribadiva, prima nella attività pastorale e via via in quella di studio e di ricerca, la sua disposizione a crescere in rapporto a una dimensione comunitaria di corresponsabilità, che animerà, a partire da un certo momento, il profilo della sua paternità episcopale. Del resto, fu lui stesso a dirlo e ripeterlo sin dagli inizi: il Vescovo è per antonomasia, secondo la tradizione patristica della Chiesa antica, «il Padre». E Padre fu, come ben sappiamo, l’appellativo che decisamente indicò come quello a lui gradito in quanto a capo di quella Chiesa locale che è la diocesi, invece degli appellativi curiali di Eccellenza o Eminenza che nel rispetto delle buone maniere, dovendoli usare, riservava a confratelli nell’episcopato, ma non gradiva per se stesso.

Ebbene, questo vissuto senso della paternità, al di là dei referenti patristici, trova, mi sembra, la sue prime origini e connotazioni a partire dal luogo stesso della sua nascita, dal seno della sua comunità di origine, fondamentalmente patriarcale, ma idealmente aperta a una più ampia conventualità umana e spirituale della quale ha sentito di essere stato progressivamente responsabile fino a divenire espressione come «Padre» di essa.

A questa ideale grande famiglia a cui confessava le sue colpe, quando redigeva il testo, egli parlava con semplicità e schiettezza. Essere semplice, schietto, dimesso, erano anche i tratti che caratterizzavano il suo modo stesso di presentarsi esteriormente. (Tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano la sobrietà del suo modo di vestire, il suo berretto basco magari un po’ di traverso; l’insofferenza verso le “norme” prescritte dal cerimoniale cardinalizio delle quali egli stesso ha parlato nel testo del «Capitolo sulle colpe», e l’umoristica fine che fecero certi indumenti cardinalizi richiesti obbligatoriamente per l’investitura e poi liquidati a cerimonia finita). Ebbene è all’insegna della schiettezza e sobrietà, che Pellegrino a 78 anni si confessa, e lo fa pubblicamente di fronte alla dilatata «comunità» che egli abbraccia avviandosi all’incontro col Signore Gesù.

Oso dire che questa comunitaria confessione e revisione di vita, personale ma anche comunitaria, indirizzata agli ideali ascoltatori del passato e del presente, tutti comunque vivi e presenti per lui al cospetto del Signore, ci consente, se letta con attenzione, di rilevare anche tracce della sua formazione, i segni di una umiltà intensamente coltivata, le influenze di una spiritualità elementare, ma forte nella fede, una certa tendenza allo scrupolo che cerca di dissotterrare e mettere in luce anche le radici di certe inclinazioni meno buone come l’impulsività di carattere.

Questo testo ci consente di scoprire il candore del suo cuore, conservato intatto dai primi passi della vita spirituale fino alla vecchiaia, lo scrupolo per la verità costantemente perseguito. Si pensi alla attenzione che Pellegrino riserva a riguardo di quello che, nella direzione spirituale tradizionale, si chiamava l’individuazione del proprio “difetto dominante”; e insieme il suo impegno nel lavoro apostolico a non perdere tempo, impegno che, a suo avviso, poteva renderlo magari sbrigativo nel modo di trattare rischiando talora di mettere a disagio chi trattava con lui. E ancora, il rimprovero che si fa per una certa espressione del volto (che pure sovente sapeva aprirsi al sorriso) segnata da riserbo e severità, come il suo stesso apparire talora un po’ orso. In questa spontanea autoconfessione ho ritrovato il professor Pellegrino, il Monsignor Pellegrino direttore di coscienza, che non ti risparmiava anche secche osservazioni, ma che aspirava subito ad attenuare il rimprovero, con chiarimenti e riconoscimenti anche troppo generosi verso il figlio spirituale e l’interlocutore occasionale.

Bastian contrari

Nell’ultima parte del «Capitolo delle colpe», Pellegrino non esita a raccogliere, sotto la formula piemontese del «bastian contrari», quella che in realtà era sovente, a mio avviso almeno, la sofferta esigenza di una doverosa parrhesia, franchezza di parola per rispetto alla verità in alto e in basso. Qui, nel paragrafo del «bastian contrari», Pellegrino non parla di una sua intervista a Giuseppe Lazzati sulla stentata e difficile ricezione del concilio Vaticano II nella Chiesa in Italia, in cui si trovano ad esempio giudizi assai severi sul conto di certi vescovi, che arrivavano a ostentare ignoranza dei documenti del Concilio. Ma Pellegrino parla e si riferisce espressamente a una serie di problemi, anche più delicati, da lui sollevati nella intervista concessa a Francesco Strazzarari apparsa sul «Regno» nel marzo del 1981, sotto il titolo, probabilmente redazionale, «Questa Chiesa fra paura e profezia». Qui il dovere della parrhesia neotestamentaria è più esplicito ancora. È Pellegrino stesso a ricordare che tale sua franchezza era sembrata quasi eccessiva a «un ottimo sacerdote, (che) dichiarandosi d’accordo con quanto avevo detto, mi domandò: “Non avrebbe fatto bene a mettere meglio in rilievo gli aspetti positivi della Chiesa?”». E Pellegrino aggiunge che riteneva di averlo fatto in certa misura, anche se conveniva che una maggiore accortezza non sarebbe stata male. Ma a questo punto è doveroso ricordare che quella intervista, tra l’altro, rese addirittura furiosa una troupe di polacchi che andarono in una Congregazione vaticana a protestare contro l’ex vescovo di Torino.

La franchezza era per Pellegrino un atto di coerenza e di fede. Monsignor Bettazzi, nel suo intervento al Convegno di Torino sugli animi dell’episcopato di Pellegrino, fece oralmente cenno (poi non riportato nel testo a stampa) alle difficoltà che Pellegrino, a partire da una certa data, aveva avuto con Paolo VI.

Vorrei qui portare una testimonianza a riguardo di quanto Pellegrino mi disse quando questo papa morì, riguardo all’affetto profondo e alla riconoscenza che egli aveva per Paolo VI, ma anche allo scrupolo per la verità cui Pellegrino si ispirava. Ricostruisco a memoria, ma il senso mi è ben preciso e ben presente alla mente e mi assumo la responsabilità di quanto riferisco. «Io ho amato profondamente Paolo VI», mi disse, «e inginocchiandomi presso la sua salma ho pianto con tutto il cuore. Ma – aggiunse –, devo dire che le cose anche amare che ho sentito il dovere di dirgli, gliele ripeterei ancora tutte, anche oggi, parola per parola per il bene della Chiesa».

Mi pare inutile aggiungere che il vero amore ha i suoi prezzi. Questa schiettezza, questo bisogno profondo di dire, anche quando costa molto, la verità alle persone che si amano di più, è un insegnamento che può essere duro da recepire, ma che mostra anche la grandezza d’animo e la purezza evangelica di quest’uomo che cento anni fa nasceva qui in questa piccola borgata che oggi lo ricorda e ne celebra la memoria.

Franco Bolgiani


 
 
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