NEI CAMERINI DEL WTO
Prima e dopo Cancún


Il 10 giugno scorso ebbi l’opportunità di incontrare Luis Ernesto Derbez, da poco nominato ministro degli Esteri. Avevo avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo in precedenza nella sua funzione di ministro dell’Economia, come interlocutore attento e esigente, assai diverso dall’immagine stereotipata dei politici o burocrati messicani, di discendenza borbonica. L’uomo – di lontane origini francesi, professore ad Harvard e rapito alla politica del “cambio” dopo settantanni di monopartito – appartiene alla ristretta cerchia di illuministi dei paesi in via di sviluppo, capaci di leggere con freddezza i limiti e le possibilità del confronto tra Sud e Nord del mondo.

Amante disincantato del suo paese (così da vederne con sorridente ironia i vizi) e alunno intelligente delle scuole occidentali (di cui non scimmiotta lo stile), Derbez si è conquistato in soli due anni il rispetto unanime nelle sedi internazionali, tanto da essere già stato proposto per la segreteria della Cnuced (la Commissione dell’Onu che prepara le riunioni del Wto). Questo rapido panegirico per spiegare con quale interesse mi avviavo all’incontro confidando in uno scambio di opinioni fuori dai denti nella ristretta cerchia degli invitati; e non ne rimasi deluso.

Fin dalle prime battute il dialogo si orientò sul vertice del Wto, della cui preparazione l’onere incombeva sul nostro interlocutore, ministro degli Esteri del paese ospite.

Liberalizzazione e protezionismo

Derbez ci annunciò senza mezzi termini che a Cancún non si sarebbe raggiunto nessun accordo. Disse infatti che, dalle sue visite preparatorie, due temi erano emersi come condizionanti ogni possibile altro accordo: l’agricoltura e la farmaceutica. Per l’agricoltura il fondo della questione è noto a tutti: Usa e Ue chiedono agli altri paesi di eliminari i dazi doganali per esportare il sovrappiù della propria agricoltura altamente capitalizzata e altamente efficiente; i paesi poveri o in via di sviluppo chiedono a Usa e Ue di eliminare i sussidi all’agricoltura per ripristinare condizioni eque di competitività tra il prodotto dei propri contadini affamati e quello dei loro “colleghi” del Nord.

Con lucido pessimismo Derbez ci illustrò le ragioni dell’impossibilità di trovare un accordo. I gringos – ci disse – non sovvenzionano direttamente i contadini (impregnati di liberalismo, non possono accettare che una maggioranza di cittadini mantenga in vita con le proprie tasse una minoranza sociale, se questa non è in grado di essere competitiva di per sè stessa), ma le industrie di trasformazione; per una ragione culturale (la potenza Usa si basa sulla forza della sua industria), e soprattutto strategica (l’autonomia alimentare del popolo statunitense).

Gli europei hanno un concetto più avanzato, e più radicato ancora nello stile di vita dei popoli che compongono l’Unione. La politica agricola comunitaria (Pac per gli addetti ai lavori) è nata con un duplice scopo: compensare con sovvenzioni le differenze di prezzo, sullo stesso prodotto, tra agricoltori i cui costi di produzione non sono uguali (un olivo toscano non produce – per ragioni climatiche – quanto un olivo andaluso; un pastore greco non paga tanti contributi sociali come il suo concorrente francese); regolamentare l’offerta, con quote massime di produzione, in funzione delle previsioni di domanda, e quindi mantenere un livello di prezzi remunerativi sul mercato comunitario (misura che fa regolarmente gridare allo scandalo, come quando si pagano contributi per abbattere le vacche da latte, per evitare la sovrapproduzione e far scendere il prezzo al di sotto della soglia di redditività per gli allevatori). Con gli anni i costi di produzione si sono allineati all’interno dell’Unione Europea, ma l’apertura del mercato comunitario ai prodotti provenienti da paesi extra-europei (frutto dei successivi accordi di libero scambio firmati all’interno del Wto) avrebbe rimesso in discussione la sopravvivenza economica di molti contadini europei e di molti alimenti a cui siamo affezionati (costa molto meno un pomodoro marocchino che una tumatica di Pino Torinese, e un ketchup turco di una pummarola amalfitana). Pertanto i contributi comunitari si sono convertiti in strumento per garantire la competitività dell’agricoltura europea rispetto a quella del Terzo Mondo. L’opinione pubblica europea ha ormai accettato le sovvenzioni ai contadini come strumento per conservare la propria identità alimentare (la cui ri-valorizzazione viene costantemente crescendo negli aspetti fondamentali degli stili di vita di ogni comunità locale) e per delegare a una classe sociale parte del compito di conservare l’ecosistema rurale (come dimostrano i sempre più diffusi sussidi alle comunità montane).

Per parte loro i paesi in via di sviluppo stanno prendendo coscienza che l’apertura troppo rapida delle proprie economie (pur necessaria per trovare sbocchi alla produzione locale) li espone ad una concorrenza diseguale, il cui risultato non è solo la cancellazione della bio-diversità di cui sono produttori, ma soprattutto la negazione di ogni potenziale di sviluppo della propria agricoltura, per la ricaduta in un sistema di sussistenza dei contadini “poveri”, cui sarebbe negata ogni possibilità di esportazione del surplus prodotto.

La via di uscita dall’impasse risiederebbe – secondo Derbez – in uno scambio tra graduale liberalizzazione dei Paesi poveri e massicce sovvenzioni a interessi zero dei paesi ricchi. Una soluzione impraticabile nella attuale congiuntura economica mondiale di stagnazione. A meno di veder apparire nuovi orientamenti politici, che significhino la disponibilità degli elettori occidentali a sacrificare una parte delle proprie tasse per un piano di sviluppo del Sud del mondo, cosa che attualmente non sembra nemmeno immaginabile. Perciò il ministro augurava al suo paese il mantenimento di un certo protezionismo per avere il tempo di rendere più competitivi i suoi cari compaesani «coltivatori di fagioli non transgenici».

I farmaci e le multinazionali

Sui farmaceutici un primo accordo era già stato trovato, permettendo ai paesi firmatari di poter ri-produrre, per ragioni di emergenza nazionale e senza pagare royalties alle multinazionali, quei farmaci che risultassero troppo costosi nella loro versione originale. In pratica una delle conseguenze di questo accordo sarà quella di lasciar copiare ai paesi africani afflitti da autentiche epidemie di Aids i medicinali anti-Hiv.

Il Messico, ci spiegava il ministro, fa già ampio uso dei cosiddetti medicinali “generici” o “similari”, pur nel rispetto dei diritti di proprietà dei brevetti, che prevedono la proibizione di copiare un farmaco nei primi cinque anni dalla commercializzazione.

Ma proprio questa esperienza permette di percepire meglio i rischi dell’accordo. In Messico infatti (e in particolare nelle sue foreste tropicali) si concentrano non poche risorse naturali rare e ambite dalle multinazionali farmaceutiche. Il Paese tuttavia (e in questo non differisce affatto da quasi tutti i paesi più sviluppati) non ha assolutamente capacità di finanziare con il denaro pubblico la ricerca sanitaria e farmaceutica in particolare. Secondo Derbez un uso sconsiderato dei principi stabiliti dall’accordo rischia di orientare la ricerca delle multinazionali piuttosto verso quei medicinali (come gli anti-invecchiamento, tipo Viagra) destinati al mercato dei privati in grado di pagarseli, lasciando i poveri a curarsi con i surrogati dell’aspirina.

Un successo della democrazia

Questo è quanto si diceva tra le quinte, due mesi prima della confernza di Cancún, e che si è sostanzialmente compiuto. La novità sorta al vertice del Wto è la creazione di una alleanza dei paesi in via di sviluppo, che hanno bocciato a maggioranza il testo proposto da Usa e Ue.

Contrariamente a molti commenti new-global considero un successo della democrazia e delle istituzioni internazionali quanto è successo a Cancún. È all’interno delle varie agenzie dell’Onu che i paesi del nord troveranno una barriera alla propria prepotenza, non nelle trattative bilaterali, squilibrate per definizione. Quello che si è ottenuto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu (bloccare le proposte Usa con una maggioranza di contrari) non c’è motivo di non riuscire a raggiungerlo nella Organizzazione Mondiale del Commercio, che dell’Onu è solo una espressione settoriale.

Ora viene la fase interessante: scrivano i paesi del G22 il nuovo testo da portare al prossimo vertice, e su quello mobilitino il maggior numero di consensi, tra i cittadini del sud e del nord del mondo.

Stefano Casadio

 
 
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