Editoriale |
Sì, perché la vicenda Parmalat è maturata nella rossa Emilia, ma non in quella parte di Emilia rappresentata da Peppone, bensì in quella che ad essa si contrappone in nome dei valori tradizionali della famiglia e della chiesa, nell’Emilia dei Giuffrè, dei bancarottieri cattolici, dei finanziatori delle opere diocesane, che da tale collateralismo ecclesiale ottengono fama di buoni cristiani e di integerrimi cittadini e vedono moltiplicata per cento, già qui in terra, la propria credibilità imprenditoriale e la disponibilità di capitali a spese di improvvidi risparmiatori. La chiesa locale, il parroco di Collecchio e il vescovo di Parma, finché hanno potuto hanno taciuto, limitandosi a esprimere la propria incredulità e a ricordare i meriti di Tanzi nel finanziare il restauro della parrocchiale, del duomo e del battistero, la sua disponibilità verso le opere di carità della diocesi. Poi hanno chiesto perdono, non è chiaro se per le proprie più o meno indirette responsabilità o a nome del «fratello che aveva sbagliato». Hanno fatto bene, perché il cristiano deve esigere giustizia, ma anche mostrare pietà, e nessuno può scagliare la prima pietra ergendosi a giudice di chicchessia. Infine hanno invocato una forte ripresa del senso della moralità pubblica, dell’etica della responsabilità e della trasparenza in campo economico. Nel discorso ai vescovi italiani, riuniti a Roma per parlare del rinnovamento della pastorale parrocchiale, il cardinal Ruini ha ripreso e rilanciato tali considerazioni etiche, per tuffarsi subito nel mare, a lui tanto più congeniale, delle questioni politiche italiane d’attualità: sistema di controllo delle banche e delle imprese, riforme pensionistiche e istituzionali, unità e federalismo, legge Gasparri e così via. Chi accusa i vertici Cei di fare più politica che pastorale non sbaglia. Mentre chi cerca dietro i loro fugaci cenni ai problemi ecclesiali qualche spunto che orienti alla riflessione di fede, deve confessarsi deluso. La chiesa italiana oggi chiede e ostenta visibilità pubblica, si presenta come agenzia sociale di consenso o di dissenso, gioca volentieri il ruolo di cappellana della repubblica e spende tutta la sua autorità nella difesa della cosiddetta etica naturale e della religione civile, depositaria della cultura e dei simboli dell’identità nazionale e europea. In questo atteggiamento di totale resa ai bisogni religiosi dei potentati politici ed economici di questo mondo, denunciata con forza dall’ultima «Lettera agli amici» dai fratelli e dalle sorelle di Bose (4-12-2003), che dà voce al disagio presente in molti ambienti e movimenti ecclesiali, sta la radice della responsabilità che la chiesa di Parma ha nel caso Tanzi e la chiesa italiana nella caduta di moralità privata e pubblica del mondo cattolico. Non è nostro compito cercare responsabilità individuali. Compito di ogni figlio della chiesa e, dunque, anche nostro, è prendere coscienza che il mondo cattolico sta diventando sempre più «cattolico» e sempre meno cristiano, vale a dire è sempre più tentato di ripiegare sulla difesa di quei residui di visibilità sociale che la cristianità di ieri gli ha lasciato, e sempre meno sente l’urgenza dell’annuncio e della testimonianza del vangelo di Cristo tra gli uomini. A suo modo lo dice bene Ernst Nolte, storico revisionista e neo-reazionario: «Indubbiamente il cattolicesimo, con la sua struttura severamente gerarchica e la sua positiva valutazione del passato, è più vicino al campo politico della destra che della sinistra... Ma fino a quando esso non si sarà liberato dalle sue origini cristiane, resterà legato alla predicazione dei profeti del Vecchio Testamento, che è soprattutto il luogo d’origine della sinistra» («Repubblica» del 20-1-04). Chi privilegia e abitualmente frequenta «i banchieri e gli imprenditori di Dio», «gli uomini della Provvidenza», non può condividere la vita e i problemi dei poveri e di coloro che vivono del lavoro delle proprie mani. Non può sopportare che, tanto per l’Antico quanto per il Nuovo Testamento, solo sofferenti e affamati, miti e perseguitati, ricercatori della giustizia e della pace possano essere evocati col titolo di «poveri di Dio». Chi continuamente predica l’etica naturale nei rapporti familiari e sociali, ha dimenticato e contribuito a far dimenticare le esigenze etiche che derivano dalla scelta di fede. Chi si fa custode dei monumenti della cristianità passata e propaganda il cattolicesimo come radice culturale di una civiltà e la croce come simbolo di identità etnico-nazionale, contribuisce allo sradicamento dello spirito di fede che ancora brilla, qua e là, nelle coscienze cristiane più resistenti all’omologazione sociale ed ecclesiastica. Il caso Tanzi non è solo opera di tradimento e di inganno, ma frutto malato di una formazione religiosa malata, non individuale, ma collettiva, che non ha colpito solo il mancato patron della «televisione del bene», ma anche il parroco di Collecchio e il vescovo di Parma e con loro tanti parroci e tanti vescovi e tanti Tanzi grandi e piccoli. Tutti educati non alla radicalità evangelica, ma al lassismo neo-gesuitico del farsi i fatti di famiglia e al neo-fariseismo ecclesiastico che ciò che conta è dar soldi alla chiesa e ostentare pubblico culto, perché tanto nel segreto dei cuori più nessuno è in grado di penetrare. [ ] |