Editoriale
 

Sul caso Parmalat tutto è stato scritto o quasi tutto per quanto riguarda l’aspetto finanziario, imprenditoriale, giuridico e persino etico e politico. Non torneremo su questi temi, anche se su di essi e sulla tanto decantata libertà del mercato, capace di autoregolarsi, abbiamo le nostre opinioni, fortemente critiche. Partiremo dall’etica per riflettere sui risvolti religiosi ed ecclesiali del problema.

Sì, perché la vicenda Parmalat è maturata nella rossa Emilia, ma non in quella parte di Emilia rappresentata da Peppone, bensì in quella che ad essa si contrappone in nome dei valori tradizionali della famiglia e della chiesa, nell’Emilia dei Giuffrè, dei bancarottieri cattolici, dei finanziatori delle opere diocesane, che da tale collateralismo ecclesiale ottengono fama di buoni cristiani e di integerrimi cittadini e vedono moltiplicata per cento, già qui in terra, la propria credibilità imprenditoriale e la disponibilità di capitali a spese di improvvidi risparmiatori.

La chiesa locale, il parroco di Collecchio e il vescovo di Parma, finché hanno potuto hanno taciuto, limitandosi a esprimere la propria incredulità e a ricordare i meriti di Tanzi nel finanziare il restauro della parrocchiale, del duomo e del battistero, la sua disponibilità verso le opere di carità della diocesi. Poi hanno chiesto perdono, non è chiaro se per le proprie più o meno indirette responsabilità o a nome del «fratello che aveva sbagliato». Hanno fatto bene, perché il cristiano deve esigere giustizia, ma anche mostrare pietà, e nessuno può scagliare la prima pietra ergendosi a giudice di chicchessia. Infine hanno invocato una forte ripresa del senso della moralità pubblica, dell’etica della responsabilità e della trasparenza in campo economico.

Nel discorso ai vescovi italiani, riuniti a Roma per parlare del rinnovamento della pastorale parrocchiale, il cardinal Ruini ha ripreso e rilanciato tali considerazioni etiche, per tuffarsi subito nel mare, a lui tanto più congeniale, delle questioni politiche italiane d’attualità: sistema di controllo delle banche e delle imprese, riforme pensionistiche e istituzionali, unità e federalismo, legge Gasparri e così via. Chi accusa i vertici Cei di fare più politica che pastorale non sbaglia. Mentre chi cerca dietro i loro fugaci cenni ai problemi ecclesiali qualche spunto che orienti alla riflessione di fede, deve confessarsi deluso. La chiesa italiana oggi chiede e ostenta visibilità pubblica, si presenta come agenzia sociale di consenso o di dissenso, gioca volentieri il ruolo di cappellana della repubblica e spende tutta la sua autorità nella difesa della cosiddetta etica naturale e della religione civile, depositaria della cultura e dei simboli dell’identità nazionale e europea.

In questo atteggiamento di totale resa ai bisogni religiosi dei potentati politici ed economici di questo mondo, denunciata con forza dall’ultima «Lettera agli amici» dai fratelli e dalle sorelle di Bose (4-12-2003), che dà voce al disagio presente in molti ambienti e movimenti ecclesiali, sta la radice della responsabilità che la chiesa di Parma ha nel caso Tanzi e la chiesa italiana nella caduta di moralità privata e pubblica del mondo cattolico.

Non è nostro compito cercare responsabilità individuali. Compito di ogni figlio della chiesa e, dunque, anche nostro, è prendere coscienza che il mondo cattolico sta diventando sempre più «cattolico» e sempre meno cristiano, vale a dire è sempre più tentato di ripiegare sulla difesa di quei residui di visibilità sociale che la cristianità di ieri gli ha lasciato, e sempre meno sente l’urgenza dell’annuncio e della testimonianza del vangelo di Cristo tra gli uomini.

A suo modo lo dice bene Ernst Nolte, storico revisionista e neo-reazionario: «Indubbiamente il cattolicesimo, con la sua struttura severamente gerarchica e la sua positiva valutazione del passato, è più vicino al campo politico della destra che della sinistra... Ma fino a quando esso non si sarà liberato dalle sue origini cristiane, resterà legato alla predicazione dei profeti del Vecchio Testamento, che è soprattutto il luogo d’origine della sinistra» («Repubblica» del 20-1-04).

Chi privilegia e abitualmente frequenta «i banchieri e gli imprenditori di Dio», «gli uomini della Provvidenza», non può condividere la vita e i problemi dei poveri e di coloro che vivono del lavoro delle proprie mani. Non può sopportare che, tanto per l’Antico quanto per il Nuovo Testamento, solo sofferenti e affamati, miti e perseguitati, ricercatori della giustizia e della pace possano essere evocati col titolo di «poveri di Dio».

Chi continuamente predica l’etica naturale nei rapporti familiari e sociali, ha dimenticato e contribuito a far dimenticare le esigenze etiche che derivano dalla scelta di fede. Chi si fa custode dei monumenti della cristianità passata e propaganda il cattolicesimo come radice culturale di una civiltà e la croce come simbolo di identità etnico-nazionale, contribuisce allo sradicamento dello spirito di fede che ancora brilla, qua e là, nelle coscienze cristiane più resistenti all’omologazione sociale ed ecclesiastica.

Il caso Tanzi non è solo opera di tradimento e di inganno, ma frutto malato di una formazione religiosa malata, non individuale, ma collettiva, che non ha colpito solo il mancato patron della «televisione del bene», ma anche il parroco di Collecchio e il vescovo di Parma e con loro tanti parroci e tanti vescovi e tanti Tanzi grandi e piccoli. Tutti educati non alla radicalità evangelica, ma al lassismo neo-gesuitico del farsi i fatti di famiglia e al neo-fariseismo ecclesiastico che ciò che conta è dar soldi alla chiesa e ostentare pubblico culto, perché tanto nel segreto dei cuori più nessuno è in grado di penetrare.

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