RACCONTO
Il povero pastore

Quel povero pastore era disperato. Un figlio in prigione, per fatti vergognosi. L’altro sfaccendato e spendaccione, carico di debiti, che ricadevano su di lui. La moglie faceva parlare di sé, e non bene. Fredda e lontana di spirito, non comunicava con lui. Egli si presentava alla sua chiesa, la domenica, a capo chino, e offriva umili sermoni che sentiva cadere come acqua nella sabbia, o voce nel deserto. Quelle rarissime volte, una all’anno forse, che qualcuno lo ringraziava, o gli dava un cenno di messaggio ricevuto, riprendeva fiato, per poco tempo. Predicava la carità e la giustizia nella vita quotidiana, nelle cose di tutti i giorni. Questa è la vera religione – diceva, – la bontà spicciola, umile e concreta, la pazienza, il perdono, la premura, la cortesia, che è la carità nelle piccole cose. «Compiere la giustizia, amare con tenerezza, camminare umilmente con il tuo Dio», leggeva nel profeta Michea; e in Osea: «Io voglio l’amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti». E ancora, dal libro dei Proverbi: «Praticare la giustizia e l’equità dal Signore è preferito al sacrificio». Quindi la religione sincera e operante, non quella solo verbale e cultuale, o addirittura formale e ipocrita. Leggeva spesso in Isaia: «È questo il digiuno che preferisco: spezzare la catene inique, sciogliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e rompere ogni giogo. È questo: spezzare il pane all’affamato, introdurre in casa i poveri senza tetto, coprire colui che hai visto nudo, senza trascurare quelli della tua carne», eppure la vita della sua chiesa, dei suoi familiari, la sua stessa, era pigra e sorda alla giustizia. E ancora ricordava le parole di Zaccaria: «Siate leali l’uno con l’altro, pronunziate giudizi di pace; nessuno ordisca nel suo cuore trame contro il fratello; non vi compiacete di giuramenti falsi», mentre sapeva che troppe cose simili accadevano nel suo piccolo gregge, e non sentiva il proprio cuore libero e puro da sentimenti cattivi. Tornava volentieri, nei suoi sermoni, l’avvertimento di Giacomo: «Questa è la religiosità pura e senza macchia davanti a Dio Padre: visitare gli orfani e le vedove nella loro afflizione, custodire se stesso immune dal contagio del mondo». Tra le parole che teneva sempre sott’occhio e riproponeva ai suoi c’era anche Siracide: «La pratica dei comandamenti è sacrificio di comunione; chi ricambia un favore ... chi dà l’elemosina ... chi si astiene dall’ingiustizia ... chi offre con volto lieto», ecco chi pratica il vero culto. Amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi, vale più di tutte le pratiche religiose, era il ritornello evangelico nei suoi sermoni. Tenere il proprio corpo in santità e onore, senza abbandonarsi alle passioni; lavorare per vivere e rendersi utili agli altri, anche nella vita di casa, invece di sfruttare il lavoro altrui: questo insegnava facendo eco alle raccomandazioni di Paolo. Giustizia, misericordia, fedeltà, questi precetti principali che Gesù ricorda quando inveisce contro gli ipocriti, erano la sintesi della legge che egli proponeva. E prima del culto, quasi ogni volta, il nostro pastore ricordava quelle parole: «Se stai per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; dopo verrai a offrire il tuo dono», perché la pace è più importante del culto. Ma non vide mai nessuno uscire dal tempio, eppure sapeva che non c’era pace tra tutti.

Cercava, all’occasione, di riproporre questa via evangelica alle persone di casa e qui gli pareva, con immensa tristezza, che la sordità fosse ancora maggiore, e che le parole cadessero in un silenzio vuoto.

Si sentiva fallire proprio in ciò che sapeva essere il suo primo impegno e compito. La sua famiglia era un fallimento quotidiano, e il fallimento era suo. Pregava ogni giorno con fede, ma nulla cambiava. «Bisogna che il pastore sappia ben governare la propria famiglia e guidare i figli con grande dignità. Poiché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?». Questa regola data ai primi pastori cristiani era la sua croce. Egli era inadempiente. Domandò più d’una volta alla sua chiesa di essere esonerato. Avrebbe vissuto di traduzioni, si sarebbe adattato a qualunque lavoro. Ma sempre gli riconfermarono l’incarico, minimizzando la sua preoccupazione, forse anche perché non c’erano molti fratelli più degni di lui.

Così visse il nostro povero pastore, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Quando si presentò al Signore, teneva più che mai il capo chino. «Ho lavorato la tua vigna senza alcun frutto», confessò subito, mostrando tutta la miseria della sua povera vita, e non osava alzare gli occhi. Dopo un silenzio calmo, gli furono mostrati volti amici, che lo attendevano sorridenti, e qualcuno gli suggerì di guardare laggiù in terra, dove – li scorgeva solo ora – parecchi fratelli, e persone mai viste né conosciute, camminavano onestamente e umilmente sulla via che lui aveva tante volte indicata, praticavano ogni giorno, anche cadendo e rialzandosi fiduciosi, quei buoni consigli di evangelo quotidiano che egli aveva distribuito. Allora, una voce gli si fece intendere: «La parola che hai seminato con costanza e con fede, vedi, ha fruttato, anche se lontano dai tuoi occhi. Ha camminato da sola, senza di te. È arrivata, per le vie che tu non sai, ad orecchie disposte ad intendere, e ha prodotto dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno. Vieni, servo buono e fedele». Il nostro pastore entrò in una luce di stupore, non fu più triste, anche perché tra quei volti che gli venivano mostrati ne riconobbe alcuni che gli erano specialmente cari, e la gioia lo invase, trasfigurandolo.

Luca Sassetti


 
 
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