LA FINE DELLA FILOSOFIA SECONDO VATTIMO |
Metafisica contro democrazia? |
Vattimo sostiene che «in gran parte della filosofia contemporanea, l’idea heideggeriana di metafisica come identificazione dell’essere vero con una struttura stabile, oggettivamente riconoscibile e fonte di norme, è largamente condivisa, e respinta sul piano teorico». Anzi: «Andando molto al di là di Heidegger e di Popper, si può identificare semplicemente la fine della filosofia come metafisica con l’affermazione, pratica e politica, dei regimi democratici. Dove c’è democrazia non ci può essere una classe di detentori della verità vera che o esercitano direttamente il potere (i re filosofi di Platone) o che forniscono al sovrano le regole per il suo comportamento». Metafisica come violenza La parola filosofia indica la passione per la verità non il possesso della verità, tanto meno il potere della verità e/o sulla verità. La differenza tra il filosofo e il «detentore della verità» è analoga a quella fra religione e superstizione, tra culto del divino e idolatria. La presunzione del possesso definitivo e privilegiato della verità è poco filosofica e trasforma la verità in una cosa da conservare, detenere; rende violenta la filosofia verso la verità prima ancora che nelle sue applicazioni etiche e politiche. Spinoza è un esempio mirabile di pensiero “forte”, ma molto attento al potere, capace di difendersi dalle sue tentazioni e di elaborare una teoria politica incardinata sulla libertà. Se Spinoza riesce a ricavare dal suo determinismo metafisico una teoria liberale dello Stato, significa che la conoscenza, vera o presunta, di un ordine strutturale dell’essere non comporta ipso facto autoritarismo e deduzione di norme che comprimano la libertà. Le lezioni di metafisica, di morale e di politica che per secoli i filosofi hanno impartito ai potenti non potrebbero impartirle adesso al popolo direttamente? Svolgerebbero un’importante funzione educativa e il loro sapere, dovendosi misurare in questa grande impresa divulgativa (ma anche al tiranno e al principe bisognava tradurre il linguaggio metafisico in termini non specialistici), forse si alleggerirebbe e si chiarirebbe meglio. Il campo della divulgazione filosofica non sarebbe occupato solo dagli ideologi delle fine del pensiero forte, della non esistenza della verità e di norme universali, col risultato che al popolo sovrano non resta che tentare di arginare l’arrogante follia delle oligarchie dominanti con la propria impotenza e il proprio disorientamento. Si apre, qui, un discorso sulla vera natura delle nostre democrazie che forse ci aiuta anche a capire la fortuna di questa filosofia che liquida la filosofia. La sovranità non risiede nel popolo, come vorrebbe la democrazia, bensì in oligarchie economiche e finanziarie poco visibili ma in possesso di mezzi efficaci per farsi legittimare da riti plebiscitari periodici, presentati come essenza della democrazia. Le domande che il potere non ama Gli attuali oligarchi non amano ostentare il loro potere facendoselo legittimare da preti e filosofi come avveniva in passato. Preferiscono restare in ombra e farsi coprire dal teatro politico. Se i filosofi, invece di cercare la verità e dirla con chiarezza, passano il tempo a scuotere la testa in preda ai dubbi e alle insicurezze, con la sola certezza che la verità è politicamente pericolosa, è tutta nebbia guadagnata a copertura del potere reale. Oggi il potere preferisce che non ci s’interroghi troppo sulla sua conformità all’ordine divino e metafisico. Preferisce che non ci s’interroghi proprio sulla sua natura. Invece, i recenti successi dei festival di filosofia rivelano interesse dei non specialisti ai problemi filosofici. Le domande che il potere non ama sono molto interessanti per chi il potere lo subisce. Vattimo parla, però, di «progressiva dissoluzione della filosofia» nelle scuole e nelle università, dove si istituiscono sempre nuovi corsi di scienze umane, sempre più autonome e sempre più prestigiose socialmente, mentre «le iscrizioni ai corsi di filosofia diminuiscono vistosamente». Ma i due fenomeni vanno tenuti distinti. La crescita d’interesse alla filosofia è parente dell’analogo interesse crescente per le questioni religiose: in un mondo che appare sempre più insensato cresce l’interesse religioso e filosofico per le domande di senso. E la filosofia, che per secoli ha cercato, con pochi risultati, di orientare verso il bene despoti e potenti, farebbe bene a cogliere l’occasione di realizzare adesso qualche risultato rivolgendosi, come ai tempi di Socrate e di Protagora, alla gente nuovamente sensibile. Il calo delle iscrizioni ai corsi di filosofia per concorrenza delle scienze umane, invece, realizza un antico destino della filosofia: mettere al mondo sempre nuove scienze e cedere loro parziali territori di competenza, e risponde al bisogno del potere di servirsi e di coprirsi di competenze scientifiche sempre più specialistiche e sempre più incontrollabili dalla gente. Nuove professioni allettanti e nuove risposte al bisogno di ideologia da parte del potere. La scienza non è ideologia, ma c’è un uso ideologico delle scienze e delle competenze scientifiche ogni volta che l’autorità scientifica e tecnica viene dilatata e spesa al di là del proprio campo di competenza. Già l’ironia socratica aveva denunciato questo fenomeno, mettendo a nudo il tentativo di chi, competente e autorevole in campi specifici, cercava di imporsi, col peso di quell’autorevolezza e a copertura della propria ignoranza, in questioni etiche e politiche, nella definizione del bene. Straordinaria attualità di Socrate, se è vero che, come dice Vattimo, il problema oggi è quello di «evitare che all’autorità del re filosofo si sostituisca il potere incontrollato dei tecnici dei vari settori della vita sociale ... più pericoloso, perché più subdolo e parcellizzato ... con il rischio di costruire una società schizofrenica». Non si trovano nella storia molti casi di re filosofi, ma il pericolo individuato da Vattimo è molto serio e il recupero dell’ironia socratica con funzione di smascheramento decisivo. Prete senza Dio e artista senza Bellezza Vattimo, per sottrarre «l’integralità dell’esperienza individuale e sociale... alla schizofrenia tecnologica e alla conseguente ricaduta nell’autoritarismo», propone una nuova figura di filosofo: «non scienziato, non tecnico, ma qualcosa di più simile al prete e all’artista: prete senza gerarchia, però, e forse artista di strada». La filosofia ha sicuramente parentele con la religione e con l’arte, ma perché dovrebbe modellarsi sui suoi parenti per ridefinirsi? Socrate e Protagora, ad esempio, sono due eccellenti e attuali modelli, soprattutto se tenuti insieme e non separati o, addirittura, contrapposti come spesso capita di trovarli sui manuali di storia della filosofia. Pare che ci sia in Vattimo una sfiducia nella filosofia, dovuta all’idea che il suo problema più importante e più tradizionale non abbia più senso. Infatti, dopo aver identificato il nuovo compito del filosofo, un po’ prete e un po’ artista, con l’aiuto alla comunità nella formazione di «sempre nuovi modi d’intendersi», si domanda: «Tutto ciò ha davvero qualcosa a che fare con l’essere?». E si risponde: «ma l’essere è forse qualcosa di diverso, più profondo e più stabile e nascosto del suo evento?». Sembra un prete che non crede più in Dio o un artista che, sazio delle cose belle realizzate dagli artisti, non sogna la Bellezza. Ma, se ci sono solo eventi, che cosa ce ne facciamo della filosofia? Basta la storia. Ma l’evento diventa evento di se stesso? Di altri eventi? Come si fa a dare un senso all’evento se ci si ferma ad esso? Forse collegandolo ad altri eventi altrettanto senza senso? Se il filosofo deve assomigliare al prete senza gerarchia, ma anche senza Dio, all’artista di strada senza il sogno della Bellezza, la sua funzione si riduce a quella dell’animatore culturale in un mondo dominato da oligarchie che non amano interrogazioni di senso. Un filosofo sicuramente privo di potere autoritario, ma anche del potere di vedere e di far vedere il senso che il potere reale impone alle cose e agli uomini. Un po’ come liberare il prete dalla gerarchia liberandolo di Dio. Come se Dio potesse essere il vertice e la base di umane gerarchie, tolto il quale, fossero tolte tutte le gerarchie. Così, dichiarando non reale il fondamento metafisico del potere, si pensa di liquidare il dispotismo, l’autoritarismo, e di aprire la strada alla democrazia. Come se il potere esistesse in forza delle sue legittimazioni metafisiche. Nel rapporto tra metafisica e potere, basterebbe un po’ d’attenzione al rapporto di Platone, il cattivo maestro di autoritarismo, con i tiranni di Siracusa per farsi una chiara idea di chi abbia sempre avuto il coltello dalla parte del manico. Una possibilità per la filosofia Non si può però negare la forza di una legittimazione metafisica. Non c’è infatti solo il potere bruto e neppure solo quello politico. Ma, per robusta che sia una legittimazione filosofica del potere, essa non potrà mai diventare la sua sorgente. Quando un potere chiede alla filosofia la sua legittimazione è già molto sicuro di sé e la filosofia, attività serale per Hegel, arriva a cose fatte e va bene se riesce a suggerire qualche consiglio, spesso inascoltato. Il potere politico prima si fa consacrare religiosamente ed abbellire artisticamente, cura la storia, si serve dei saperi tecnici e scientifici e, solo molto dopo, arruola anche filosofi. La democrazia, quando sia reale, può invece offrire alla filosofia possibilità di lavoro senza l’illusione di avere il mondo in mano, ma anche senza le umilianti frustrazioni dei servi. Convincere che è possibile dare un senso alla vita e al mondo significa rispondere a un bisogno vitale degli individui e della società. Trovare questo senso non sarà facile, ma il filosofo – in democrazia – non è solo e non deve servire un tiranno. Giuseppe Bailone |