TEODICEA (14) |
Non si cambiano solo i cavalli |
Abbiamo parlato l’ultima volta dell’eventuale conoscenza del futuro da parte di Dio; e da parte di Gesù Cristo? In campo cattolico, fino al 1960, la situazione era la seguente: Gesù di Nazareth, che percorreva le strade della Palestina coi suoi stracci addosso, era accreditato dell’onniscienza tipica della divinità; ossia conosceva tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro, tutte le leggi della scienza, tutta la storia passata e futura, tutto quello che gli sarebbe successo, compresa la data e la modalità della propria morte, il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e così via (parecchie di queste predizioni sono solo apparentemente storiche, ma non appartengono al genere storiografico; sono i cosiddetti vaticinia ex eventu, cioè profezie retrodatate, rielaborazioni delle comunità post-pasquali messe in bocca a Gesù). Fu K. Rahner (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) che nel 1961 ruppe gli argini con un paio di saggi sulla scienza e coscienza di Gesù. Gesù, uomo che non sa il futuro La tesi di Rahner è che la non-conoscenza del futuro sia una componente fondamentale dell’umanità e dell’essere uomini: a parte la palese contraddizione della prescienza di ciò che mi capiterà domani o di come mi deciderò domani (se so che mi capiterà una cosa spiacevole me ne guarderò bene dall’andare in quel luogo o dal prendere l’auto, e quindi la cosa prevista non avverrà), la non-conoscenza del futuro permette all’uomo di progettare, di rischiare, di desiderare veramente: come potrei scegliere e progettare in serenità se so già come andranno a finire le cose? Un’entità che conoscesse il futuro non è più un uomo, ma un’altra cosa; e la vita non sarebbe più quella che conosciamo. L’altra considerazione rahneriana è che sappiamo bene cosa significhi «essere uomo», ma non sappiamo bene cosa voglia dire «essere Dio» e il suo livello di conoscenza dei vari gradi della realtà (il grado di realtà del passato è certamente diverso da quello del futuro). Il riferimento al concilio di Calcedonia (451 d.C.) chiude il ragionamento: dato che Gesù è pienamente e veramente uomo (non mezzo uomo e mezzo Dio), non può conoscere il futuro; è vero che è anche pienamente e veramente Dio, ma sui livelli della conoscenza divina è meglio astenersi. Un Gesù che conoscesse il proprio futuro (sino alla data della propria morte) non sarebbe più un uomo, ma un’altra cosa, forse un essere divino, che rischia di cadere nell’eresia monofisita o docetista: cioè il vedere in Gesù una sola natura, in questo caso quella divina. La sua umanità viene a essere solo una specie di travestimento esteriore, ma “dentro” è pienamente solo Dio nel senso della metafisica classica; il che permette a Rahner di fare delle riflessioni molto pertinenti sulla “pietà” tendenzialmente eretica dei fedeli, che pensano e guardano al Gesù terreno e palestinese come a un viandante che conosce cosa sarebbe successo nei giorni seguenti, che gode continuamente della visione beatifica, anche sulla croce, riducendo quindi la sua umanità a una farsa, a un puro apparire. Il desiderio di vita Per quanto poi concerne l’escatologia più in generale e la salvezza finale, non ne sappiamo molto: in pratica è impossibile la descrizione fenomenologia dell’«altra vita»: di essa può venir solo indicata la via per non esserne esclusi, ossia la ricerca della giustizia del Regno. La prevedibile fragilità della mia fede e la mia umana debolezza non saranno un ostacolo decisivo alla ritrovata gioia di esistere e alla mia compiuta restituzione alla vita da sempre desiderata. Ma la diabolica arroganza del mio cinismo di fronte alla vita e alla morte altrui, quella sì può realmente vanificare la mia amorevole gestazione alla vita da parte di Dio, rendendomi irrimediabilmente estraneo alla sua verità; allontanamento irrevocabile colpevolmente anticipato nella mia ostinata e maligna separazione dalla vita e dalla morte dell’altro. Non è quindi insensato pensare a una riconfigurazione personalizzata di tutta l’informazione vitale, vista come dono esclusivo di Dio e non come una cosa che l’uomo ha in dotazione per natura in forza della sua anima immortale. Si possono seguire due piste di ricerca per analizzarne almeno le condizioni di possibilità: una nel sondare la dinamica, per certi aspetti anomala, del desiderio umano, e l’altra nel considerare la base materiale degli organismi viventi. Ora il desiderio umano di vivere, mentre implica un originario attaccamento all’esistenza che di fatto si vive, non ne rappresenta il semplice riflesso, in quanto abbiamo nel contempo una presa di distanza dall’esistente dato, un distacco dal vivere presente per nuovi progetti. Ma, eventualmente realizzato un progetto, appartiene alla dinamica del desiderio il rifiuto di annullarsi e di fermarsi nel riconoscimento della soddisfazione raggiunta. Non realizzare od ottenere qualcosa, ritenuto importante, è quasi insopportabile; ma una volta raggiunto l’obiettivo, non ci si ferma dicendo basta: ossia non ci si identifica completamente e non ci si acquieta con ciò che ora è vissuto, bensì emergono ulteriori idee, intenzioni, tensioni e tendenze. Insomma il desiderio di vita tende al proprio «compimento», rifiutandosi al tempo stesso di considerarlo come la propria «fine». Il desiderio rivela la mia trascendenza rispetto al mio esistere attuale; ma l’eventuale compimento che ne spegnesse ogni apertura, annullando la mia trascendenza in una definitiva identificazione con l’esistente dato, sarebbe per me ancora vivere? Perciò non ha senso qualsiasi compimento ulteriore, terreno o ultraterreno, che annulli la temporalità e il sorgere di nuovi desideri congelando la vita. D’altra parte però la catena dei desideri non può essere infinita, come in un’ipotetica vita terrena che durasse centinaia o migliaia di anni; non è quindi insensato pensare all’incontro risolutivo con Dio in Gesù come un evento che interrompa la solita catena dei desideri terreni, ma senza congelamento: la morte non significa un’indefinita prosecuzione dello stesso tipo come se, per dirla con Feuerbach, si trattasse di cambiare solo i cavalli per poi avanzare nella consueta successione e nella solita apertura indeterminata. Si tratta invece, come si esprime P. Sequeri nel suo linguaggio raffinato, di un «scioglimento definitivo del desiderio di vivere dalla condizione della fede e della speranza, ma non dalla apertura fiduciosa e illimitata all’insondabile ricchezza dell’esistere che sola tiene “in vita” l’essere umano. Dunque non marmorea identificazione con l’esibirsi dell’essere nella nuda e raggelante verità della sua “fine eterna”, bensì trapasso al punto di vista strenuamente desiderato di un puro rinnovarsi dello stupore non più velato dal presentimento dell’illusione; della lieta volontà di aprirsi al mistero “senza fine” della vita che si è imparato ad amare, liberi finalmente dal timore della scoperta di una sua segreta e fatale tragicità. In altri termini, l’essenza stessa di quello che l’uomo desidererebbe fosse il tempo: dispiegamento della vita nella sua inesauribile ricchezza, e non il suo ambiguo scorrere all’ombra dell’inevitabile approssimarsi della mia fine» (P. A. Sequeri, La speranza oggi e il fine dell’uomo, in AA.VV. Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica, a cura di Karl H. Neufeld, Queriniana-Brescia 1983, pp. 135-152, 146, 150ss.). Duemila proteine al secondo L’altra linea è quella del progressivo superamento della base materiale. Prima ci sono solo oggetti inanimati, quegli oggetti cioè la cui permanenza nel tempo richiede necessariamente una continuità della loro base materiale (ad es. una roccia è sempre la medesima nei suoi costituenti che non mutano e non vengono sostituiti). Con la comparsa della vita abbiamo invece la permanenza di alcuni “oggetti”, appunto i viventi, che non richiede una continuità della loro base materiale, ma solo una continuità della loro organizzazione formale (configurazione, in-formazione). Mentre una roccia di oggi è la stessa roccia di ieri, la mia mano di oggi non è la mia mano di ieri (in senso lato, facciamo una settimana; comunque nell’arco di circa due mesi rinnoviamo tutto il nostro corpo, con la parziale eccezione dei neuroni cerebrali). Le molecole che compongono il mio cuore di oggi non sono fisicamente quelle che facevano parte del mio cuore due mesi fa, e non sono quelle che faranno parte del mio cuore di domani. Ha luogo una continua rielaborazione metabolica, una continua rigenerazione morfogenetica, ipercomplessa, individualizzata e gerarchizzata nei suoi vari livelli e cicli, che investe la configurazione globale del sistema. Negli esseri viventi esiste un’organizzazione che si mantiene al di là e al di sopra del continuo avvicendarsi delle molecole che la compongono. A parte le cellule del sangue e quelle sessuali, ogni cellula del corpo produce circa 2000 proteine al secondo (se non vogliamo esagerare, facciamo ogni 10 secondi). Una proteina è una combinazione di 300 fino a oltre 1000 aminoacidi. Il corpo di un essere umano adulto è composto da circa 75 mila miliardi di cellule. Quindi, ogni secondo di ogni minuto di ogni giorno il nostro corpo prepara accuratamente 150 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di aminoacidi che andranno a formare le catene proteiche. Il tessuto, di cui noi e tutta la vita siamo costituiti, è continuamente ricreato con una velocità inimmaginabile. Man mano che saliamo verso la vita organica abbiamo inoltre una sovrapposizione sempre più complessa e articolata, nel senso dei concetti di «sopravvenienza» e di «emergenza», che sono paradigmi della filosofia della scienza. Cioè i livelli superiori della biologia sopravvengono, vengono sopra, si àncorano al supporto inferiore della biochimica da cui emergono, così come le proprietà mentali emergono da quelle neurali e biologiche, proprio come la chimica sopravviene sulla fisica. I livelli superiori o più complessi della realtà, pur dipendendo dal livello fisico, non sono ad esso riducibili. Essi quindi sopravvengono, vengono sopra e s’intersecano al supporto sottostante emergendo da esso (visto dal basso è un emergere, visto dall’alto un sopravvenire). Non è insensato pensare che nell’eskaton i livelli superiori del mentale cosciente, opportunamente riconfigurati, possano sopravvivere anche senza i loro abituali supporti materiali inferiori. Detto in altre parole, la sostanza vivente distingue la propria identità da quella della sua temporanea materia: la vita è l’uscita dall’identità con la materia, pur permanendo bisognosa di essa. Non ci sembra assurdo pensare l’eskaton come culmine e compimento definitivo di questo stacco dalla materia. Non solo la vita si mantiene al di là e al di sopra del singolo organismo, ma si mantiene al di là e al di sopra della sua base molecolare; e pure l’informazione si mantiene al di là e al di sopra della suo supporto materiale (i geni e il Dna si dissolvono, ma prima vengono duplicati e trasmessi; si trasmette una conoscenza, non una sostanza materiale). Ogni «differenza che fa la differenza» è informazione. La vita, già nel suo livello biologico, è informazione-funzione, intelligenza, ri-conoscimento, linguaggio, organizzazione formale, memoria. Allora la vita “eterna”, in cui molto probabilmente cesserà l’elemento funzionale, potrà fare a meno del corpo e della materia. (continua) |