ESPERIENZE |
Operare in Africa |
L’Africa che generalmente conosciamo dai mass media è quella spettacolare delle tragedie della guerra, delle catastrofiche carestie, o delle nature prorompenti delle foreste o dei romantici colori delle savane. Più difficile è conoscere l’Africa primordiale, poco, ma già contaminata dall’Occidente nelle sue radici più profonde in cui risiedono i valori della sua civiltà più autentica con al centro i legami famigliari, tribali, con gli antenati, e attanagliata dai suoi bisogni antichi. Il Sud Sudan fa parte di quest’Africa ancora primordiale, che versa in una condizione d’emergenza cronica tutta centrata sulle necessità del presente, perché il passato è fatto di guerra dolorosa, e il futuro è inimmaginabile in assenza di pace e stabilità. È difficile in questo contesto svolgere la matassa delle motivazioni che spingono un chirurgo a ripetere un’esperienza di volontariato. Forse è la ricerca del nucleo essenziale della nostra professione che si condensa nell’imperativo evangelico di andare per le strade del mondo a curare i malati specie i più poveri. L’incontro con una medicina che è sì povera, ma con al centro l’unica vera preoccupazione che è la ricerca di soddisfare il bisogno di salute di un paziente che per anni non ha potuto avere a disposizione personale sanitario che si prendesse cura di lui, riporta il nostro operato nella sua vera dimensione professionale. È quindi la medicina della povertà quella che ha più necessità del nostro operare, ma che al tempo stesso contiene la maggior ricchezza di insegnamenti per ogni medico. In queste condizioni occorre utilizzare strumenti che non possono che tener conto delle condizioni locali, perché solo così sono comprensibili e possono essere piano piano acquisiti senza creare alcuna forma di dipendenza, anche da personale non sufficientemente istruito ma che può essere “trainato” con ottimi risultati. Il problema vero è che spesso noi siamo impreparati a questo compito, così abituati a lavorare supportati da molto superfluo, talora travestito di tecnologia e talvolta incapaci di costruirci il nostro prezioso bagaglio tecnico scientifico che nel nostro sistema spesso non è in funzione del nostro paziente ma del nostro potere o del nostro guadagno. Operare in sud Sudan è il richiamo a fare appello solo alle nostre risorse personali, a eseguire interventi chirurgici con poca luce, in capanne di fango, ma con tecnica ed emostasi perfetta perché non c’è sangue da trasfondere e bisogna fare di tutto per non commettere errori. D’altra parte la nostra limitatezza d’intervento a volte è il solo poco che queste popolazioni possono ricevere in termini di diritti umani fondamentali qual è la salute. E poi alla fine si resta sempre stupiti perché si ricevono lezioni di umanità disarmanti e così scopri che il tuo strumentista lavora con te fino all’ultimo giorno e in coda alla seduta si fa operare per una fistola perianale (inimmaginabile nei nostri ospedali). In venti giorni di lavoro presso il piccolo ospedale di Adior nella regione del Bahr el Ghazal del sud Sudan sono stati visitati 120 pazienti, di questi ne sono stati operati 65, che sono stati sottoposti a 75 interventi chirurgici. La patologia prevalente è stata quella erniaria. Le ernie, insieme al taglio cesareo, rappresentano il fabbisogno chirurgico fondamentale nell’Africa rurale. L’occlusione intestinale da ernia strozzata rappresenta una causa di morte abbastanza frequente; la sorte di questi pazienti si compie spesso nel bush, con dolori di pancia, vomito; allora si avvicina lo spettro di una agonia lunga e penosa in popolazioni prive di una rete ospedaliera anche primitiva. La chirurgia salvavita anche in condizioni così avverse è sicura, ma deve essere eseguita con estrema prudenza, perizia ed equilibrio; anche per chi è abituato a questi tipi di interventi la fatica è sempre maggiore, dato il gap tra le nostre strutture e la povertà dei paesi sottosviluppati. Anche l’anestesista deve sopportare un grande stress psicologico e monitorare scrupolosamente il paziente con l’uso di scarsissimi mezzi, cosa oggi molto inusuale data l’utilizzazione di apparecchi sempre più sofisticati. Perciò oltre all’esperienza, per tutti è necessaria sempre una forte componente motivazionale. In questi anni di campagne di chirurgia di massa effettuate in sud Sudan, abbiamo assistito a un grande miglioramento della competenza del personale sudanese, divenuto ormai autonomo nella gestione organizzativa delle nostre missioni chirurgiche. La metodologia dell’insegnare lavorando cerca di diffondere il più possibile e al maggior numero di persone le nostre tecniche e conoscenze e nel tempo produce sempre grandi e duraturi frutti. Aiutare queste popolazioni nella crescita umana e professionale significa partecipare al cammino di liberazione di questi popoli. Vivere la solidarietà e costruire la pace significa condividere la sofferenza scavata nei volti di padri e di madri che non possono soddisfare la fame dei loro figli. Il Sudan chiede a ognuno di noi di non essere abbandonato tra quell’umanità in cui crescono i bisogni fondamentali in contrasto con la ricchezza occidentale sempre più concentrata in mani di pochi. Alberto Kiss Comitato di Collaborazione Medica di Torino |